C’è questo ragazzino che conosco, ha tredici anni e tutti i vizi e le virtù della sua età. I vizi riguardano, in particolare, una scorza che lo rende impassibile, quasi abulico nei confronti del mondo esterno; la sua virtù più spiccata è la schiettezza fulminante, sfrontata con cui è in grado di farti sentire di un altro pianeta già defunto. La settimana scorsa l’ho invitato al cinema, volevo che vedesse il nuovo film di Luc Besson, «The Lady», dedicato alla leader della resistenza birmana Aung San Suu Kyi. Io l’avevo visto appena qualche giorno prima e n’ero uscito sottosopra, fortemente ispirato da una forma astratta di eroismo, che in altre circostanze e in fasi precedenti della mia vita avrei liquidato come troppo zuccherosa. Mi sembrava che l’attualità della storia, la mancanza quasi totale di ombre dell’Orchidea d’Acciaio e l’impostazione un po’ didascalica del film potessero essere di altrettanta ispirazione per un adolescente. Lui era scettico, non vedeva ragione d’impiegare tante forze, se ci tenevo tanto che ne sapesse qualcosa gli bastava consultare Wikipedia. «Non è lo stesso» ho insistito. Ci sono vicende alle quali bisogna partecipare con il corpo e con i sensi, bisogna sentirsele addosso per comprenderne la portata. Ho dovuto blandirlo con la promessa di un hamburger, ma alla fine mi ha seguito.
Fuori dal cinema, dove io avevo trattenuto a stento la commozione che m’invadeva per la seconda volta (accanto a lui mi sembrava patetica), era pensoso, contrariato. Ho creduto di aver raggiunto il mio scopo, renderlo più vulnerabile alle tragedie dell’umanità. Arrivati alla macchina, in quel suo modo lapidario, ha detto: «Comunque, di questa Birmania non ne parla nessuno».
Ho incassato, sapevo che aveva ragione. Ma poteva andare molto peggio. Senza Aung San Suu Kyi, senza il Nobel per la pace assegnatole nel 1991 e le fotografie del suo viso compassato sui giornali, della Birmania si parlerebbe ancora meno. Anzi, non se ne parlerebbe affatto. Gli U2 non avrebbero scritto quella canzone, Walk On, che la fece conoscere ai rockettari spensierati come me, Time non avrebbe dedicato una copertina a un Paese agli antipodi degli Stati Uniti e Luc Besson avrebbe continuato a dedicarsi alla tribù dei Minimei, ingrassando. Senza un uomo o una donna, a chi si può dedicare una canzone? A chi si conferisce il premio Nobel? A un popolo intero? La Birmania sarebbe diventata uno dei molti spazi neri sul mappamondo bucherellato dell’inconscio occidentale, l’avremmo semplicemente rubricato fra le aree ostili, dominate ancora dall’ingiustizia più bieca e dalla barbarie, uno dei tanti Paesi per i quali non è possibile fare nulla.
La nostra mente non è strutturata per accogliere i drammi collettivi. Quando le si para davanti l’onda gigantesca della sofferenza di un popolo, innalza subito una barriera protettiva. Il solo modo in cui quel dolore può intrufolarsi è attraverso la storia di un singolo individuo, meglio ancora se veicolata da un’opera d’arte — una canzone, un romanzo, un film —, che abbia anche una narrazione leggera. Aung San Suu Kyi, questo, lo ha sempre saputo e ha offerto se stessa come materiale vivente per quei racconti. Ha accettato di marcire dentro la stessa casa per quindici anni, lontana dal marito e i figli, inchiodata alla punizione peggiore per un’attivista, l’inazione, solamente per continuare a esserci. È il lumicino tenace che rischiara da oltre vent’anni la Birmania, per noi. Attraverso il suo sguardo fiero e amorevole siamo in grado di vedere un’intera nazione che altrimenti sprofonderebbe nel buio.
Mi accorgo, mentre scrivo di lei, che il tono delle frasi vira verso il celebrativo. Non ci sono abituato. Di solito, mi affretto a corrompere tutto ciò che ha il profumo dell’ideale con un po’ di crudo realismo puzzolente. Ma con Aung San Suu Kyi non ci riesco. Desidero con tutte le forze mantenere intatto il mito che rappresenta, come un punto all’infinito a cui tendere, una perfezione asintotica fatta di coraggio e lealtà e purezza. Voglio mantenere la fede un po’ idiota che il suo successo in queste elezioni, dopo che nel 1990 ne vinse delle altre immediatamente cancellate, sia la panacea per la Birmania, e dimenticarmi che la realtà di un Paese è molto più complessa di così, che ci saranno tensioni, lentezze, recrudescenze e altro sangue, forse. Non oso neppure rovinare la sua immagine iconografica, i fiori freschi tra i capelli e la mano alzata in segno di saluto. Credo sia il motivo per cui ho convinto quel ragazzino a venire al cinema con me: volevo che esistesse anche per lui un riferimento assoluto d’integrità. Ieri è stato lui a scrivermi un messaggio: «Aung ha vinto».
The Lady si conclude con una frase celebre del Premio Nobel: «Usate la vostra libertà per favorire la nostra». Più che un monito una preghiera, forte e difficilissima anche solo da concepire. La libertà, per noi, è quasi sempre un traguardo, si esaurisce nel suo conseguimento. Una donna minuta, dalla sua casa piantonata nell’entroterra birmano, ci fa sapere che è qualcosa di più e di meglio, è materia da plasmare, un mezzo. Ci sono molte altre nazioni sul mappamondo, disastrate almeno quanto il Myanmar, che attendono ancora la loro Orchidea d’Acciaio. Quello che dovremmo fare è molto chiaro, ce l’ha suggerito lei: usare la nostra libertà per favorire la loro. Ma, come al solito, saperlo non basta.
Il Corriere della Sera 02.04.12