Nel dodicesimo canto dell’Odissea, Omero racconta che Ulisse non aveva scelta: se fosse passato troppo vicino a Cariddi, la sua nave sarebbe stata affondata in quel terribile gorgo; se, per contro, fosse passato troppo vicino a Scilla, avrebbe salvato la nave ma quel mostro a sei bocche gli avrebbe divorato sei buoni compagni. Ulisse non disse nulla ai suoi uomini, passò vicino a Scilla e perse sei buoni marinai. Optò quindi per il male minore, ma tale opzione provocò la rivolta del suo equipaggio che lo costrinse a fermarsi sull’isola Trinacria dove uccise alcuni buoi sacri, fonte di nuovi guai.
Sia pure in forme molto diverse, tutti i governi dei Paesi ricchi devono affrontare il dilemma di Ulisse: per evitare di vedere le loro economie affondate dai mercati finanziari, ossia dal gorgo di Cariddi, devono adottare misure che provocano scontento sociale e politico, ossia le avvicinano alle bocche di Scilla.
Le forme dello scontento vanno dallo sciopero generale spagnolo all’imprevisto successo, nei sondaggi pre-elettorali francesi, del candidato comunista Jean-Luc Mélenchon.
A differenza di Ulisse, il vero pericolo è di subire contemporaneamente i due mali: di non riuscire a evitare né un ostacolo né l’altro, di vedere le economie avanzate, in particolare quelle europee, stritolate da un mercato finanziario fuori controllo e al tempo stesso scosse da un risentimento di fondo verso politiche non rapidamente efficaci.
Del rischio finanziario è un ottimo esempio la cancellazione – a seguito di un litigio tra il presidente Jean-Claude Juncker e il ministro austriaco delle Finanze Maria Fekter – della conferenza stampa conclusiva della riunione dell’Eurogruppo, svoltasi venerdì a Copenhagen. Se avesse tenuto quella conferenza stampa, Juncker avrebbe dovuto ammettere che l’Europa ha quasi soltanto «riverniciato», non realmente rafforzato, il fondo anti-crisi e che non si è ancora trovato l’accordo sul nome del suo successore: due non-decisioni indicative l’una del persistere della debolezza finanziaria e l’altra della mancanza di una vera volontà politica europea.
La debolezza finanziaria è molto evidente. Sui conti pubblici della Grecia è stato posto solo un vistoso rattoppo e il suo primo ministro ha dichiarato venerdì che gli aiuti ottenuti forse non basteranno (un modo diplomatico per chiederne dei nuovi); il Portogallo può vantare una forte riduzione del deficit pubblico, accompagnata, però, nel 2012, da una contrazione produttiva di oltre il 3 per cento; le sorti finanziarie di Italia e Spagna rimangono appese agli spread e soggette a un esame giornaliero; anche i rigorosissimi Paesi Bassi dovranno operare dei tagli per rimanere sotto il «tetto» del 3 per cento e il deficit francese, pur lievemente ridotto rispetto alle previsioni, rimane sopra il 5 per cento.
L’intera zona euro rischia così di avvitarsi in una spirale perversa: deficit pubblico – tagli alle spese per cancellarlo – riduzione della produzione a seguito dei tagli – minor gettito fiscale a seguito di tale riduzione – nuovo deficit pubblico (sia pure inferiore al precedente) invece dello sperato pareggio. Ne è un esempio la Spagna che ha dovuto varare la manovra finanziaria più severa – e più impopolare – dai tempi di Franco e che, nonostante questo, alla fine del 2012, avrà, se tutto va bene, un deficit pubblico pari a oltre il 5 per cento del prodotto interno lordo. Le analisi dell’Ocse, diffuse venerdì, mostrano che, nel loro complesso, le tre maggiori economie europee (Germania, Italia e Francia) hanno tristemente celebrato con la fine di marzo il secondo trimestre di caduta produttiva. Altri segnali di grave debolezza provengono dalla produzione industriale italiana, specie nel settore auto.
L’Unione europea non può semplicemente accettare una situazione del genere e continuare a inchinarsi ai mercati finanziari perdendo di vista la sostenibilità sociale delle manovre in corso e considerando gli andamenti di tali mercati come una (l’unica?) variabile indipendente, alla quale bisogna sempre adeguarsi senza discutere. Dovrebbe invece da un lato porre ordine in tali mercati, impedendo ondate speculative troppo brusche e rimuovendo l’opacità che ne caratterizza certi segmenti e dall’altro spostare in avanti gli obiettivi di pareggio dei bilanci pubblici e di riduzione dei debiti pubblici troppo frettolosamente fissati nel patto fiscale o «patto di bilancio» dei primi di marzo. Un pareggio troppo frettoloso potrebbe destabilizzare il sistema europeo per un lungo periodo.
Potrebbe poi introdurre qualche forma di tassazione dei circuiti finanziari (spesso sinteticamente indicata come «Tobin tax»): gli introiti di tale imposta, come anche una parte degli introiti derivanti dalle manovre dei vari Paesi, dovrebbero essere subito reimmessi nell’economia sotto forma di misure di stimolo invece di venire passivamente sacrificati al dio Moloch del pareggio da raggiungere al più presto possibile.
Se non si vuole seguire questa linea, non va scartata a priori la proposta avanzata venerdì a Cernobbio da Nouriel Roubini – l’economista turco-americano, laureato alla Bocconi che è stato uno dei pochi a prevedere la crisi – di immettere una fortissima liquidità nel sistema fino a far svalutare l’euro del 30 per cento. Per non finire nelle bocche di Scilla o sugli scogli di Cariddi l’Europa deve in ogni caso fare un salto di qualità e smetterla con il suo compiaciuto linguaggio burocratico, con le conferenze stampa annullate per nascondere i contrasti, con una visione troppo miope e troppo pericolosa.
la Stampa 01.04.12