Naufragio durante la guerra in Libia, il Consiglio d´Europa accusa Guardia costiera e Nato. “Le richieste di soccorso furono ignorate da pescherecci e da navi militari”. Se i comandanti avessero seguito la legge del mare, se l´Italia avesse fatto il suo dovere, se la Nato non avesse ignorato gli appelli, i 63 migranti morti sulla barca alla deriva nel Mediterraneo nella primavera scorsa si sarebbero salvati. È una prima condanna, sia pure solo politica, il primo risultato dell´indagine aperta dal Consiglio d´Europa e curata dalla parlamentare olandese Tineke Strik. «Queste persone non dovevano morire», dice il documento intitolato Vite perse nel Mediterraneo: chi è responsabile. E la Tineke punta il dito prima di tutto sul nostro Paese, perché è stata la Guardia Costiera italiana a ricevere la prima richiesta d´aiuto, inoltrata il 27 marzo 2011 dal sacerdote eritreo Mussie Zerai, a sua volta contattato dai migranti disperati nel gommone alla deriva. Va aggiunto che a Bruxelles in quei giorni alla guida del comitato militare della Nato era l´ammiraglio Giampaolo Di Paola, oggi ministro della Difesa del governo Monti: la relazione della Strik non lo sottolinea, ma è evidente che l´ammiraglio non poteva non sapere quello che stava succedendo al largo delle coste libiche.
Dopo nove mesi di inchiesta, il giudizio è severo: «Se i diversi attori fossero intervenuti, si sarebbe potuto mettere in salvo i migranti in molte occasioni. Molto si deve ancora fare per evitare che persone muoiano nel disperato tentativo di raggiungere l´Europa». È vero che le acque del Mediterraneo non sono pietose: l´anno scorso sono morte almeno 1500 persone nel tentativo di raggiungere l´Europa. Ma stavolta, sottolinea la relazione della Strik, il caso è diverso, perché «appare che le richieste di soccorso siano state ignorate da pescherecci, navi militari e da un elicottero militare». Il contatto con quest´ultimo, secondo le testimonianze dei nove sopravvissuti raccolte nella bella inchiesta della Radiotelevisione svizzera Rsi, è stato quasi una beffa: il velivolo militare ha girato a lungo sulla barca, si è allontanato, è tornato solo per lanciare qualche pacchetto di biscotti e poche bottiglie d´acqua.
La condanna a morte per i 63 disperati è dovuta a una serie di “errori”: non solo l´Italia e Malta non hanno dato seguito all´allarme lanciato dal Guardacoste, ma anche «la Nato non ha risposto alla richiesta di soccorso, anche se c´erano navi dell´Alleanza vicino alla zona da dove era stata lanciata la richiesta». In particolare, secondo quanto la Strik è riuscita a ricostruire, c´era una nave spagnola, la “Méndez Núñez”, ad appena 11 miglia, (dato discusso dalla marina di Madrid), mentre l´italiana “Comandante Borsini” era a 37 miglia. Non è chiaro a quale nave appartenga l´elicottero che ha portato i pochi rifornimenti: entrambe hanno a bordo un velivolo, ma in nessun caso riporta sulla fiancata la dizione “Army”, come raccontato dai superstiti. Le testimonianze dei sopravvissuti vengono considerate «credibili» dalla relatrice dell´inchiesta, anche quando parlano di un´altra nave militare, descritta come «molto grande», che si era avvicinata molto al gommone il decimo giorno, ma senza fornire nessuna assistenza. I marinai si erano limitati a osservare con i binocoli e fotografare i migranti.
Di chi sia stata la decisione ultima che ha condannato 63 esseri umani a morire di sete, di fame, o fra le onde, la Strik non lo dice. Il rapporto parla di «fallimento collettivo di Nato, Onu e dei singoli Stati nel pianificare gli effetti le operazioni militari in Libia e nel prepararsi per un atteso esodo via mare». Ma la storia non finisce qui: il documento della Strik sarà al centro del dibattito all´assemblea del Consiglio d´Europa, il 24 aprile prossimo. Con la speranza che le conclusioni non siano: colpa di tutti, quindi di nessuno.
La Repubblica 30.03.12