Il grande linguista, scrittore ed ex ministro festeggia sabato 80 anni e parla della situazione della scuola, della cultura e della ricerca in Italia. «A inizio Novecento, Giolitti capì che il Paese aveva bisogno di istruzione. Da Presidente del Consiglio, scelse un ministro forte, Vittorio Emanuele Orlando, e nacque la scuola elementare italiana. Oggi, avremmo bisogno di un capo del governo del genere, uno che in prima persona voglia reimpostare la politica scolastica e culturale del Paese. Per puntare davvero sulla produttività. Mi pare però che ne siamo ben lontani». Tullio De Mauro compie sabato 80 anni (domani la Sapienza gli dedica una giornata di studio dalle 9 alle ex vetrerie Sciarra di via dei Volsci 122) e festeggia facendo quel che ha sempre fatto. Massimo linguista italiano, Ministro dell’istruzione per tredici mesi, non ha mai smesso di riflettere sullo stato di salute del sistema scolastico e universitario italiano. E oggi dice: «La scuola può salvarsi. L’Università l’hanno fatta a pezzi. Della ricerca è quasi inutile parlare. È evidente a moltissimi esperti di economia che stiamo già pagando, in termini di produttività, un deficit di ricerca. Ma nessun politico ne parla. Eppure all’estero, Sarkozy e Hollande si sfidano sull’istruzione; Obama per vincere punta sull’istruzione; la Merkel taglia i fondi su tutti i settori e quel che risparmia lo redistribuisce all’Istruzione. Qui invece si demanda a un ministro come se fosse materia di un solo ministero. Da Monti non ho sentito una parola. E, per la verità, non ne ho sentita una da nessun altro politico, con l’eccezione, davvero solo verbale, di Vendola».
Ma cominciamo dall’inizio, Professore. Il suo ultimo libro, Parole di giorni un po’ meno lontani edito da il Mulino è un intreccio di ricordi linguistici dominato da maestri, insegnanti, professori, scuole, licei, università. Partiamo dalla scuola, allora.
«La scuola è un corpaccio così grosso e forte che può prendere colpi e cazzotti, può subire tagli e riduzioni, ma resiste. Non che siano stati poco gravi i colpi inferti. Ma la scuola si assesta e va avanti. Porta risultati e profitti. Anche se i genitori a metà anno devono procurare la carta igienica».
E l’Università?
«È stata fatta a pezzi. Oltre ai tagli dei finanziamenti, sono due le mosse che sembrano studiate per distruggerla. La prima è una norma: ogni cinque professori che vanno in pensione se ne chiama solo uno. Questo significa che si stronca il funzionamento delle facoltà. Se vanno in pensione un archeologo, uno storico medievale e uno moderno, un glottologo e un italianista, io chi chiamo? Cinque lavori molto diversi. Quattro li elimino. Quali? E perché? Ma vede, c’è un altro problema enorme. I professori oggi passano il loro tempo a studiare normative che richiedono continui adempimenti. Da tre anni sono letteralmente sommersi da regolamenti complicati, di incerta interpretazione e che si accavallano gli uni sugli altri costringendoli a un lavoro del tutto estraneo al loro mestiere. Walter Tocci, uno dei rarissimi parlamentari che si occupano della questione, ha calcolato che la cosiddetta riforma Gelmini richiederà diecimila norme tra regolamenti attuativi del Ministero e dell’Università. Insomma, si è scatenata, a ragion veduta, una tempesta burocratica. Il risultato è il coma dell’Università pubblica. Un giorno qualcuno se ne accorgerà. Forse la mitica Europa? Comunque, la ricostruzione sarà durissima».
I centri di ricerca invece in che condizioni sono?
«Si salvano i fisici che hanno creato un’oasi. Per il resto l’atrofizzazione dei centri ha portato alla dispersione o all’ammazzamento di ricercatori giovani. E qui i danni non si riparano facilmente. Rispetto al corpaccio della scuola, per la ricerca parliamo di corteccia cerebrale. Lesioni irreparabili dunque. C’è poco da essere ottimisti».
Il nuovo governo non lascia sperare?
«Si deve puntare sulla produttività, questo è evidente a tutti. Perché, diversamente, gli sforzi compiuti ora saranno inutili. Sono sorpreso che non si stia lavorando a un progetto a lungo termine. Esistono analisi dell’Ufficio Studi della Banca d’Italia che, assieme al parere di molti economisti come Tito Boeri o Luigi Spaventa, ci dicono chiaramente il motivo del ristagno della produttività: l’insufficiente grado di formazione. Per tenere il passo con le grandi trasformazioni si deve investire su Università e Ricerca. Mi pare che il governo dei tecnici non stia facendo nulla e che nessuno dei politici ne sia consapevole. Soltanto Prodi ne fece una bandiera. Una parentesi brevissima»
Veniamo allo stato di salute della lingua italiana.
«La lingua sta bene. Stanno male quelli che la usano. Mi spiego. Siamo riusciti a conquistare la capacità di parlare italiano per il 95 per cento. Non siamo riusciti invece a conquistare la capacità di leggere. Leggiamo poco. Pochi giornali e pochissimi libri. I lettori sono circa un terzo della popolazione. I restanti due terzi non hanno quel retroterra di letture e formazione scolastica che garantiscono un possesso saldo della lingua. Parliamo molto e leggiamo poco. Questo incide sul modo di usare l’italiano. Si va troppo a orecchio. Però la lingua, per conto suo, sta bene».
Il prossimo anno si festeggerà un’altra ricorrenza. I cinquant’anni della Storia linguistica dell’Italia unita. Di passi se ne sono fatti.
«Il progresso è stato enorme. E ora chi parla bene italiano parla con sicurezza molto maggiore. La lingua gira a tutto regime e ne siamo più padroni rispetto alla generazione colta degli anni Quaranta. Questo si vede anche nella scrittura. Chi scrive bene scrive molto meglio. Si è persa quella rigidità, quella pomposità. L’oratoria dei pubblici ministeri, per esempio, era da caricatura».
Quanto alla semplificazione della lingua per cui lei si è molto battuto, la sfida è vinta?
«Nel parlare e nello scrivere comuni sì. Purtroppo nella comunicazione amministrativa si annidano sacche di oscurità. Le banche innanzitutto. Arrivano malloppi di pagine già materialmente illeggibili perché scritte in caratteri minuscoli. E anche se uno prende una lente, ci vogliono ore per capire. Lì forse un po’ di volontà di lasciare il cliente all’oscuro c’è».
E ci si rassegna.
«Qui viene fuori il nostro carattere. Sa, negli Stati Uniti, c’è una normativa sulla chiarezza degli atti rivolti al pubblico di Assicurazioni e Banche. Frutto del coraggio di un cittadino della Virginia che nel ‘70 portò in tribunale un’Assicurazione. Sostenne che era impossibile, al momento della firma, avere comprensione del cavillo a cui si erano appellati per non rimborsarlo. Sconfitto inizialmente, l’uomo s’impuntò e vinse. Una sentenza che ha fatto epoca. Dovuta all’etica tutta protestante di quel cittadino. Noi siamo diversi. Non sappiamo dire Io non ci sto. È lontano dalla nostra cultura antropologica».
In che senso?
«Dinanzi a una Banca, un Comune, un pezzo di Stato, ci manca il coraggio. È qualcosa che è dentro di noi. Ossia la preoccupazione che vengano a vedere se il balconcino ha troppe piante o se abbiamo le persiane non conformi a qualche regolamento comunale tra i mille. L’idea che un’Autorità pubblica possa, se còlta in fallo, ritorcersi contro di noi è qualcosa che ci portiamo dentro. Ci manca il coraggio protestante del cittadino della Virginia. Preferiamo andare dal potente e chiedere se per favore ci aiuta. È un difetto nazionale. Dovremmo tutti imparare a essere più rigorosi. Verso noi stessi, innanzitutto. Ma anche verso le persone che scegliamo e che paghiamo perché ci amministrino e ci governino».
Il Messaggero 29.03.12