Le regole del mercato del lavoro hanno molte funzioni, più o meno evidenti a seconda dei casi: incidono sulle condizioni di concorrenza tra le imprese, da un lato, comportano conseguenze di maggiore o minore protezione sociale per i lavoratori (occupati o disoccupati), dall’altro. Una cosa però fanno, sempre: determinano gli equilibri di potere sociale e contrattuale tra i soggetti coinvolti, sia nella dimensione individuale (il rapporto tra lavoratore e datore di lavoro) sia in quella collettiva (le condizioni di radicamento delle organizzazioni sindacali). Da un governo tecnico, sostenuto da una maggioranza trasversale, ci si attenderebbe che questi delicatissimi equilibri siano modificati il meno possibile, puntando soprattutto a interventi di razionalizzazione ed efficienza o che, almeno, le loro modifiche fossero compensate da interventi di riequilibrio su altri aspetti. Sorprende davvero che quasi nessuno abbia notato in questi giorni il grave intervento previsto sui contratti a termine. Si parla molto, e giustamente, della riforma sull’art. 18, che sposta il potere contrattuale a favore dell’impresa indebolendo la sanzione di un licenziamento che risulti privo di una seria giustificazione. Il ministro del Lavoro, per giustificare tale scelta, ha affermato in più occasioni che la manovra ha un equilibrio complessivo, dato dagli interventi sulla flessibilità in entrata miranti a contrastare l’utilizzo abusivo di alcuni contratti e spingere verso la forma contrattuale standard, a tempo indeterminato. Nella manovra sono previsti alcuni interventi antielusivi, ma sulla materia centrale dei contratti a termine il documento contiene una sorpresa molto negativa, che va in senso esattamente opposto a quello annunciato. Infatti si prevede che il primo contratto a termine stipulato da un’impresa col singolo lavoratore sia privo di ogni limite, venendo meno l’obbligo di una giustificazione «causale» previsto dalla legge vigente. Ciò significa autorizzare l’impiego di manodopera precaria senza limiti, eliminando la possibilità per i lavoratori così impiegati di far valere in giudizio l’eventuale contrasto del contratto con la legge. Questa modifica va in direzione opposta a quanto voluto dalla disciplina europea. Non per caso, da circa un decennio la maggioranza di centro destra ha ripetutamente tentato di allargare le maglie della legge del 2001 che aveva attuato la direttiva Ue, e che la giurisprudenza ha interpretato nel senso di una rigorosa necessità di giustificazione del ricorso al lavoro temporaneo. La modifica, se passerà, aggraverà la condizione soprattutto dei lavoratori marginali a bassa professionalità, che rischiano di passare da un’impresa all’altra, da un «primo» contratto a termine all’altro, senza alcuna speranza di entrare nella «cittadella» del lavoro standard. La proposta Fornero non prevede alcun obbligo di stabilizzarne una parte, né alcun limite quantitativo o di durata del contratto. C’è solo un lieve aumento del costo contributivo, ampiamente compensato dal minore costo salariale dei contratti precari, dall’esclusione dei rischi di contenzioso giudiziario, dalla possibilità di affidare stabilmente una quota della produzione a lavoratori per i quali è di fatto impossibile l’accesso alla rappresentanza sindacale. Anche su questa materia la proposta modifica gli equilibri di potere sociale a favore delle imprese, anzi delle imprese che meno investono sul lavoro: quando si rende più facile l’impiego di manodopera scarsamente professionalizzata si creano effetti distorsivi della concorrenza, a danno delle imprese più avanzate e socialmente sensibili. È necessaria una seria correzione della direzione di marcia, che ci si augura venga dall’esame parlamentare.
*Ordinario di diritto del lavoro all’Università di Milano Bicocca
L’Unità 28.03.12