"Tabucchi, tra amore e disincanto acerrimo amico della vita", di Ernesto Ferrero
Nel 1970 fa il suo ingresso in Via Biancamano un giovane non ancora trentenne che può vantare una presentazione della grande Luciana Stegagno Picchio, sua maestra di letteratura portoghese a Pisa. Occhiali tondi, un accenno di calvizie, timido e rispettoso, ma fermo, convinto. Propone nientemeno che una antologia di poeti surrealisti portoghesi, quando la stella di Fernando Pessoa doveva ancora sorgere all’orizzonte (proprio per mano sua), José Saramago era alle prime prove e del Portogallo si sapeva soltanto che gemeva sotto la dittatura di Salazar. Oggi che il marketing ha surrogato le direzioni editoriali gli avrebbero riso in faccia. Da Einaudi lo inseriscono tra i primi numeri di una collana di punta, «Letteratura», che incrociava generi e discipline, tra Mandel’stam, Il Fotodinamismo Futurista di Bragaglia, Céline, Fausto Melotti e Cortázar. Ci avrebbe messo ancora dieci anni a diventare Antonio Tabucchi, il giovane studioso di Vecchiano che aveva trovato la sua vera patria a Lisbona, quel teatrino vecchiotto e un po’ fané di sogni, fantasmi, ombre, apparizioni, ambiguità, in cui si aggirava con il lieto stupore …