Forse è un segno dei tempi che un governo «tecnico» disegni una riforma quella del mercato del lavoro che più politica non si può. E le implicazioni sociali ed economiche non hanno certo contorni vaghi e indefiniti; gli indirizzi del presidente del Consiglio sono precisi: nel breve, medio e lungo periodo. Piaccia o no, è così. E dopo gli anni della convivenza del tutto con il suo contrario, degli annunci, dei rinvii e delle riforme di cui si è persa traccia, il merito della chiarezza va riconosciuto. È evidente, però, il cambio di registro degli ultimi mesi. Il mandato conferito a Monti era di affrontare l’emergenza economica nel segno della massima unità possibile. Regole d’ingaggio non scritte, che avevano consegnato a Mario Monti la maggioranza più ampia della storia della Repubblica. Un conferimento che, nella sua impostazione iniziale, suggeriva cautela nell’affrontare alcune questioni politiche ad alto rischio di generare turbolenze e instabilità. Il presidente del Consiglio pur dalle prese con una maggioranza innaturale ha scelto, invece, di lanciare una sfida che costringe le forze di maggioranza ad alzarsi dalla panchina e a scendere in campo. Ora, è inevitabile: tutti dovranno fare chiarezza e dire da che parte stanno. A cominciare dal Pd e dal Pdl. Le risposte dei partiti non si sono fatte attendere. Con Bersani: «Molte cose di questa riforma del lavoro le appoggiamo, altre no», ma «il Pd starà dalla parte dei lavoratori». Con Alfano: «Se si lavora a qualche modifica, non si può immaginare che siano di un solo colore». Con Di Pietro: «Dal governo una dichiarazione di guerra guerreggiata ai lavoratori e ai giovani». Con Casini: riforma «che migliora la situazione». La scelta di affidare la riforma a un disegno di legge non è stata dettata dal recupero di una qualche forma di cautela. È stato, invece, l’incipit di una partita la cui fine coinciderà con le prossime elezioni politiche, quando Parlamento e governo assumeranno le forme della terza Repubblica. La riforma del mercato del lavoro segna, quindi, lo spartiacque tra un governo tecnico e un governo politico. Una svolta con il passato nei metodi e nei contenuti. Nel metodo perché manda in soffitta la concertazione e il patto che da Ciampi in poi conferiva alle parti sociali un ruolo decisivo nelle scelte che riguardavano le politiche del lavoro e del welfare. Monti e Fornero hanno sostenuto che il metodo della concertazione non era più praticabile nelle forme del ’93 perché i sindacati non avrebbero comunque sottoscritto l’accordo. Probabilmente è vero,ma andare avanti,ponendo fine alla concertazione, è stata una scelta politica, non tecnica. Così come politiche e non tecniche sono state le scelte di contenuto. A cominciare dalla rimozione della norma-simbolo dello Statuto dei lavoratori: l’articolo 18. La disciplina, cioè, che garantisce, a chi viene licenziato senza giusta causa, il reintegro nel posto di lavoro nelle aziende con più di 15 dipendenti. Al suo posto andranno tutele più generiche e ad ampio spettro discrezionale. Ed è indicativa, in tal senso, la dichiarazione dello stesso premier rispetto al rischio di licenziamenti basati su motivazioni diverse da quelle previste nel perimetro della riforma. «Vigileremo» ha detto Monti. Una risposta che derubrica il tema nella categoria “quisquilie”, perché è evidente che un sistema giuridico deve poggiare su norme vincolanti e inderogabili, e non su vaghe forme di vigilanza sanzionate da rimbrotti di natura morale. L’ispirazione della riforma dovrebbe andar bene alla Fiat di Marchionne, piuttosto che al modello di fabbrica al quale si ispirava e aspirava, negli anni Cinquanta, Adriano Olivetti. Probabilmente, nell’economia generale della riforma, era utile ma non indispensabile sottrarre alla disciplina dell’articolo 18 il contenzioso tra lavoratori e imprese in materia di licenziamenti. Non era indispensabile perché, di fatto, non risolve i problemi che rendono difficile l’ingresso nel mondo del lavoro stabile. È molto più importante, in tal senso, il riequilibrio, previsto dalla riforma, tra i costi del lavoro a tempo indeterminato e determinato. Quest’ultimo diventa più oneroso e limitato nel tempo, giacché le imprese potranno farne ricorso solo fino a un massimo di tre anni. Cancellare l’articolo 18, oltretutto, non servirà a dare slancio al sistema Italia, perché la norma riguarda soltanto il3%delle imprese (ma quasi la metà degli occupati) mentre il restante 97% è soffocato dalla concorrenza sleale, dalla burocrazia, dalle tasse, dalla stretta creditizia e dai ritardati pagamenti, soprattutto da parte della pubblica amministrazione. Alla miriade di piccole e piccolissime imprese, la nostra struttura economica e produttiva, serve ben altro. Banche e governo in primis: le prime ridando fiducia agli operatori economici e alle famiglie, il secondo riducendo il peso della burocrazia e immettendo valore nel sistema con investimenti che aiutino concretamente il Paese a ripartire, cominciando dai consumi interni. Per questi motivi, cancellare il simbolo dello Statuto dei lavoratori ha un valore più politico che di cifra economica. La stessa ragione che probabilmente ha portato Monti a non accogliere la disponibilità dei sindacati sulla flessibilità in uscita. Disponibilità che riguardava l’adozione del modello tedesco e che affida al giudice la scelta tra reintegro e indennizzo, qualora il licenziamento per motivi economici si rivelasse immotivato. Ma il connotato politico è soprattutto un altro: con la riforma cambierà il focus della regolamentazione, che non sarà più sui lavoratori, ma incentrato prevalentemente sul rapporto tra offerta e domanda. È questo il cambio di prospettiva della riforma Monti-Fornero. Una riforma che contiene aspetti indubbiamente innovativi e positivi, soprattutto nel momento in cui disincentiva il ricorso al lavoro precario da parte delle imprese e rende finalmente performanti i percorsi formativi. Sistema che, però, nell’impostazione complessiva, si dispone sul modello anglosassone piuttosto che su quello europeo, quello tedesco, che sembrava dovesse ispirare il testo in discussione. La riforma cambia i paradigmi che hanno fin qui regolato il rapporto tra mondo del lavoro e impresa, spostando a livello aziendale il piano della relazione e invertendo la direzione di marcia che aveva portato le imprese minori a organizzarsi localmente come se fossero una sola grande impresa e quelle maggiori ad articolarsi come se fossero un insieme di piccole realtà. Il Parlamento dovrà decidere se scegliere un modello economico a metà tra gli Stati Uniti di Clinton e l’Inghilterra thatcheriana, oppure riorientarsi verso un sistema che ci avvicina alla Francia e alla Germa nia. Dal suo punto di vista Monti ha ragione quando dice che il testo è blindato: la riforma può accogliere piccoli aggiustamenti,ma non gran di cambiamenti che ne stravolgerebbero l’impianto e quindi gli effetti. I partiti dovranno scegliere, pensando se è quello che serve all’Italia e se il Paese ha una struttura economica adatta a ospitare una regolamentazione come quella varata dal Governo. Il fischio d’inizio è stato dato. Adesso la politica giochi la partita più importante.
*Presidente di Tecnè
L’Unità 26.03.12