Forse il Presidente Monti ha compiuto il suo primo vero errore. O forse ha scelto consapevolmente di fare uno “strappo”. Uno strappo non con la Cgil o con il Pd, questione pure rilevante, ma con una larga, larghissima parte del Paese. Di quel Paese che stava e sta guardando a questo Governo con speranza, sapendo di essere in una condizione difficile e di dover affrontare sacrifici anche duri. La riforma del mercato del lavoro e degli ammortizzatori sociali, per quello che e’ stato possibile capire fin qui e non avendo ancora letto un testo ufficiale, contiene molte misure importanti volte a ridurre la precarietà, a dare tutele ai più giovani e ad affrontare l’emergenza dei lavoratori più anziani che oggi rischiano di essere espulsi per colpa della crisi. Con risorse ancora molto scarse e con margini di miglioramento evidenti l’impianto proposto dal Governo e discusso con le parti sociali e’ interessante e raccoglie molte delle proposte del Pd.
Ma…. c’e’ un ma, grande come un macigno. La proposta di modifica dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori per quanto riguarda i licenziamenti per ragioni economiche non e’ accettabile, ha prodotto una rottura al tavolo con sindacati e imprese, ha suscitato nel merito e nel metodo molte reazioni negative. Su ciò che il Pd può fare e farà a partire dai prossimi giorni non si può aggiungere nulla alle parole che Dario Franceschini usa nelle interviste di oggi. Noi siamo una grande forza di centrosinistra, sappiamo interpretare fino in fondo le responsabilità che ci derivano dall’essere ancorati al mondo dei lavori (dentro cui ci sono, insieme ai lavoratori dipendenti, tanti piccoli e medi imprenditori oggi alle prese con difficoltà drammatiche), faremo la nostra parte e la faremo tutti insieme. La Direzione nazionale di lunedì prossimo smentirà i profeti di sventura sulla capacita’ del Partito Democratico di affrontare questo passaggio molto complesso restando unito.
Mi interessa invece soffermarmi su un altro punto, che forse merita una riflessione e segnala una differenza vera con il pensiero del Presidente Monti. In più di un’occasione Monti ha liquidato la “concertazione” come un rito del passato, come “consociativismo” deteriore. Non sono una nostalgica delle formule del passato e so che anche nei corpi intermedi e nelle rappresentanze sociali ed economiche si annidano elementi di conservazione. Nei momenti di crisi e di incertezza dentro ognuno di noi si nasconde il “diavoletto” del conservatorismo, quel riflesso condizionato che ti spinge ad aver paura delle innovazioni. Sindacati e associazioni di impresa non sono esenti da questo rischio. Eppure non convince l’idea – o forse dovrei dire l’ideologia – di chi pensa che da questa crisi si possa uscire meglio disarticolando, oltre che il ruolo dei partiti, anche quello dei corpi intermedi, di quelle forme organizzate del sociale che sono state e a mio avviso restano una risorsa della democrazia italiana, e dello stesso modello europeo. Certo e’ tutta la società italiana, compresi i corpi intermedi, ad essere alla prova. Tutti siamo chiamati a vivere con coraggio il cambiamento e a mettere in discussione vecchie certezze. Ma non mi si dica che si produce un migliore cambiamento spezzando le reti di solidarietà, indebolendo i sindacati, l’associazionismo, il Terzo settore, le organizzazioni di categoria economiche… Forse e’ anche da questo versante che va letto il monito di Mons. Bregantini.
Per questo il nostro riferimento resta l’Europa e dentro essa il cosiddetto “modello tedesco”: proprio perché crediamo profondamente nel nesso inscindibile tra crescita e democrazia economica.
Concludo con le parole che Gian Enrico Rusconi usa al termine del suo articolo di oggi su La Stampa: “Il presidente del Consiglio guarda all’Europa – continua a ripeterlo, giustamente soddisfatto dello straordinario guadagno di immagine e di fiducia raggiunto in breve tempo dal nostro Paese. Ma qual è esattamente «l’Europa» a cui si riferisce Monti? La Banca centrale europea, alcuni membri della Commissione europea, la cancelliera Merkel, soddisfatta dei «compiti a casa» fatti sinora dagli italiani? E’ tempo che Monti argomenti meglio la dimensione europea della sua azione di governo, senza riferirsi esclusivamente agli indicatori di mercato, alle Borse o ad altri dati del cui valore relativo lui stesso è ben consapevole.
Mi auguro che Monti, consegnando al Parlamento il suo piano di riforma del lavoro, non affermi che soltanto esso – così come è scritto – ci metterebbe in sintonia con «l’Europa», con il sottinteso che la sua bocciatura ci allontanerebbe dall’Europa stessa. Non è così. Ricordo molto bene che in una dichiarazione delle prime settimane, Monti stesso ha detto che i sacrifici che gli italiani si stavano preparando a sostenere non erano un «diktat» dell’Europa (o della sua banca), ma una necessità oggettiva che rispondeva agli interessi di tutti gli italiani. E questi il loro consenso, sofferto, lo hanno dato. Oggi la problematica del mercato del lavoro è più complicata, ma il criterio dovrebbe essere lo stesso. Non si tratta di mirare ad un accordo «consociativo» che i severi «tecnici» disapprovano. Ma di ricercare una intesa ragionevole accogliendo obiezioni ragionevoli. Suppongo che anche «i tecnici» sappiano quale risorsa straordinaria e insostituibile per l’efficienza del sistema lavorativo sia il consenso sociale.”
da areadem.info
******
“Ma il consenso è un valore anche in Europa”, di GIAN ENRICO RUSCONI
Il governo Monti sta commettendo il suo primo serio errore? Certamente ha toccato il punto nevralgico della sua doppia natura «tecnica» e «politica», su cui si è equivocato sino ad oggi .
Dopo l’efficace colpo di mano sulle pensioni giocato tutto sul panico-spread, dopo la deludente debole azione sulle liberalizzazioni, la coppia Monti-Fornero (con il silenzio un po’ strano degli altri presunti membri «forti» del governo) ha tentato la mossa energica della riforma del mercato del lavoro, senza rendersi conto che la posta in gioco è mutata rispetto alle altre iniziative. Non perché i sindacati siano soggetti sociali privilegiati o diversi rispetto agli altri, ma perché l’oggetto della mediazione è di natura diversa. Nella nostra società il concetto stesso di lavoro ha – giustamente – acquistato un significato che va al di là dei suoi indicatori economici.
Da qui l’ambiguità dell’espressione «liberalizzazione del mercato del lavoro», così come viene disinvoltamente recitata nei talk-show. C’è chi la ripete meccanicamente, considerandola la soluzione di tutti i mali sociali, economici e fiscali del paese, confondendola di fatto volentieri con la libertà di licenziamento – come se questa fosse la chiave della crescita.
Naturalmente giura che non è vero. Ma è un fatto che da giorni il discorso gira e si incaglia sulle motivazioni e sulle tipologie del licenziamento. Chi diffida di questa impostazione del problema o comunque ne vede i gravi limiti e pericoli si espone al sospetto di essere un veterocomunista.
Nel frattempo tutta la polemica si è sedimentata attorno all’art. 18 e alla sua modifica. E’ giusto ricordare che le iniziative del governo Monti sono molto più ampie e innovative rispetto alle proposte di riforma dell’articolo incriminato. Ma se questo articolo ha acquistato di fatto – piaccia o no – un valore simbolico tanto forte, ci deve essere un motivo.
Se si cerca di andare al fondo dei termini della polemica, si ha l’impressione di trovarci talvolta di fronte ad un processo alle intenzioni. Questa non è un’osservazione banale: è messa in gioco la fiducia reciproca tra governo e parti sociali. Si tocca la sostanza del consenso democratico. E’ un fatto politico.
Siamo così al punto nevralgico di questo «strano» governo, tra competenza tecnica e legittimità politica. Mario Monti – per quanto sappiamo sino a questo momento – ha dichiarato che presenterà le sue proposte al Parlamento corredate con un verbale ufficiale in cui sono illustrati i risultati dei contatti avuti nelle settimane scorse con le parti sociali. Non è ancora chiaro invece quale procedura di approvazione sarà adottata.
E’ una singolare novità. Soprattutto perché è accompagnata da alcune forti dichiarazioni sulla «fine concertazione». Confesso che non mi è chiaro il senso di questa insistenza. Il comportamento del governo è del tutto legittimo, data la sua natura particolare, senza bisogno che ricorra ad una enfatica presa di distanza dalla concertazione come se fosse sinonimo di cattivo consociativismo o di inciucio politico-sociale.
Non insisto su questo equivoco, salvo far osservare ai tanti tedescofili improvvisati che spuntano ora nel nostro Paese (anche a proposito dell’art.18) che la concertazione è stato uno dei fondamenti del sistema tedesco che continua a vivere di una cultura e istituzionalizzazione del consenso sociale inconcepibile per la nostra cultura politica. Non si può scegliere dal «modello tedesco» quello che più fa comodo ignorando tutto il resto.
Ma torniamo nel nostro Parlamento che dovrà affrontare anch’esso la sua prima prova seria da quando ha dato il suo sostegno al governo Monti. Il presidente del Consiglio guarda all’Europa – continua a ripeterlo, giustamente soddisfatto dello straordinario guadagno di immagine e di fiducia raggiunto in breve tempo dal nostro Paese. Ma qual è esattamente «l’Europa» a cui si riferisce Monti? La Banca centrale europea, alcuni membri della Commissione europea, la cancelliera Merkel, soddisfatta dei «compiti a casa» fatti sinora dagli italiani? E’ tempo che Monti argomenti meglio la dimensione europea della sua azione di governo, senza riferirsi esclusivamente agli indicatori di mercato, alle Borse o ad altri dati del cui valore relativo lui stesso è ben consapevole.
Mi auguro che Monti, consegnando al Parlamento il suo piano di riforma del lavoro, non affermi che soltanto esso – così come è scritto – ci metterebbe in sintonia con «l’Europa», con il sottinteso che la sua bocciatura ci allontanerebbe dall’Europa stessa. Non è così. Ricordo molto bene che in una dichiarazione delle prime settimane, Monti stesso ha detto che i sacrifici che gli italiani si stavano preparando a sostenere non erano un «diktat» dell’Europa (o della sua banca), ma una necessità oggettiva che rispondeva agli interessi di tutti gli italiani. E questi il loro consenso, sofferto, lo hanno dato. Oggi la problematica del mercato del lavoro è più complicata, ma il criterio dovrebbe essere lo stesso. Non si tratta di mirare ad un accordo «consociativo» che i severi «tecnici» disapprovano. Ma di ricercare una intesa ragionevole accogliendo obiezioni ragionevoli. Suppongo che anche «i tecnici» sappiano quale risorsa straordinaria e insostituibile per l’efficienza del sistema lavorativo sia il consenso sociale.
da La Stampa 23.03.12