Fa una certa impressione leggere questa formulazione al comma 9 del nuovo art.18 nella versione che ho potuto consultare: «Nell’ipotesi in cui annulla il licenziamento perché accerta l’inesistenza del giustificato motivo oggettivo addotto dal datore di lavoro, il giudice condanna il datore di lavoro al pagamento di una indennità risarcitoria». Il giustificato motivo oggettivo è definito dalla legge 604 del 1966 e consiste in «ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa». Si noti che la legge tedesca è più stringente e parla di «urgente necessità aziendale». La versione italiana è più lasca, tant’è che a suo tempo nelle ragioni oggettive fu incluso anche il caso della «eccessiva morbilità del lavoratore», cioè dell’eccessivo ricorso ad assenze per malattia, anche regolarmente giustificate. In ogni caso il nuovo art.18 prevederebbe che il giudice possa ordinare solo l’indennizzo quando il giustificato motivo è appunto «inesistente».
Questo significa che, anche se fosse acclarato che il motivo economico non esiste, è solo strumentale o che comunque non c’è nessun nesso causale tra la ragione economica e quel singolo lavoratore o lavoratrice da licenziare, il giudice avrebbe le mani legate, potrebbe solo disporre la monetizzazione del licenziamento. Ma cos’è un licenziamento economico in cui il motivo economico è «inesistente»? Non può che essere arbitrario. E licenziamento «arbitrario» non significa necessariamente «discriminatorio», come qualche osservatore vorrebbe farci credere. Discriminazione è altro, richiede una prova comparativa, difficilissima da dare, specie quando si è di fronte a un singolo licenziamento.
C’è quindi una sola interpretazione logica della disposizione descritta: si vuole dare libertà di licenziamento sub specie di motivi economici (anche fasulli). È evidente infatti che se anche ricorrendo al giudice, perdendo tempo e risorse, al massimo si arriva all’indennizzo, quell’indennizzo conviene negoziarlo prima con il datore di lavoro. Si chiama monetizzazione del licenziamento illegittimo. Ma perché mai si vuole costituire questa corsia privilegiata per i licenziamenti arbitrari sotto specie di pseudo-motivo economico, mentre per i disciplinari si prevede, giustamente, il potere discrezionale del giudice di optare tra indennizzo e reintegrazione? Chi saranno mai questi lavoratori candidati ai licenziamenti liberi?
La risposta è ovvia: i lavoratori «scomodi» a vario titolo, meno produttivi perché afflitti da malattie croniche, le donne oberate di carichi familiari, e soprattutto quelli più anziani e usurati per i quali di recente si è alzata l’età pensionabile, usando l’argomento della crescita delle aspettative di vita e della «vecchiaia attiva». Non a caso si prevede una indennità, nel massimo, molto elevata: fino a 27 mensilità. È chiaro che essa è destinata a quei lavoratori prima vicini e ora più lontani dalla pensione, che si troveranno nel limbo tra perdita del lavoro e attesa della pensione. Alla faccia delle retoriche sulla vecchiaia attiva. È evidente quindi che ai licenziamenti economici va riferita la medesima disciplina prevista per i licenziamenti disciplinari: lasciare al giudice la decisione tra indennizzo e reintegrazione, a seconda della natura del caso. Così si fa in Germania. Altrimenti si aprirebbe un problema insuperabile in termini di parità di trattamento, sullo stesso piano costituzionale. A proposito di parità di trattamento è emersa un’altra singolare questione. L’applicabilità o meno ai pubblici dipendenti della nuova normativa. Osservo che, checché ne dicano i diversi ministri, la nuova disciplina non può non applicarsi all’impiego pubblico. Altrimenti nel testo unico sul pubblico impiego si dovrebbe scrivere che lì si applica, qualunque sia la dimensione degli enti (compresa quindi la più sperduta comunità montana) l’art. 18 nella vecchia versione. Si tratterebbe di una soluzione aberrante, che scava di nuovo un divario tra lavoro pubblico e privato. A seguito della quale si riaprirebbe una campagna denigratoria e indifferenziata contro il lavoro pubblico. Meglio evitarlo, e costruire quindi una disciplina ragionevole per tutti i lavoratori dipendenti, privati o pubblici che siano.
l’Unità 23.3.12
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Le troppe favole ideologiche sull’articolo 18″, di Michele Raitano
Assumendo che l’abolizione della tutela in caso di licenziamento economico non discenda da influenze ideologiche o vincoli politici (anche se le dichiarazioni di Alfano lasciano supporre un’interpretazione diversa), è interessante valutare quanto siano giustificate le principali motivazioni che nel dibattito sono state poste a supporto dell’intervento governativo sull’art. 18. In primo luogo, si ritiene necessario aumentare sensibilmente la flessibilità in uscita ritenendo rigido e pieno di sacche di privilegio il nostro mercato del lavoro. Come ho argomentato in passato anche sulle colonne dell’Unità, la lettura dei dati sulle dinamiche di carriera dei lavoratori contrasta fortemente questa chiave di lettura. Da una parte, i dati sconfessano l’immagine di un mercato del lavoro rigido a tutela del «posto fisso» (si pensi che in media il 30% dei lavoratori a tempo indeterminato perde tale status in un periodo di soli 5 anni e questo dato risulta in linea con quello dei Paesi ritenuti più deregolamentati); dall’altra, i dati mostrano che la probabilità di stabilizzazione per i lavoratori atipici non dipende affatto dalla dimensione di impresa, anzi risulta addirittura maggiore in quelle medio-grandi. Tutto ciò suggerisce che l’influenza dell’art. 18 su licenziabilità effettiva e mobilità dei lavoratori è molto contenuta e che le scelte delle imprese risentono soprattutto di altri fattori.
D’altro canto, non si può non ricordare come fra i Paesi della Ue15, sulla base della graduatoria di rigidità della protezione dell’impiego stilata dall’Ocse, l’Italia risulti fra i più flessibili e sia quello caratterizzato dalla maggior riduzione di tale indice di rigidità negli ultimi 15 anni. Un’altra motivazione a supporto dell’abolizione delle tutele dell’art. 18 consiste nella supposta necessità di liberare il mercato del lavoro in uscita per consentire ai più giovani la possibilità di entrata. Ma questa affermazione, tutta da verificare, è in netto contrasto con le motivazioni portate, tra gli altri, dallo stesso Ministro Fornero a difesa del fortissimo aumento dell’età pensionabile. Si ritiene infatti che il blocco delle uscite degli anziani non costituisca nessun vincolo particolare alle entrate dei più giovani.
Ma, evidentemente, delle due l’una: o crediamo che ciò che conti nel sistema economico siano le forze «profonde» di domanda e offerta e ciò deve valere sia nella riforma delle pensioni che in quella del mercato del lavoro, oppure pensiamo che contino soprattutto i vincoli regolamentativi. Ma in questo caso le motivazioni alla base delle due riforme appaiono in forte contraddizione, a meno di non pensare male e vedere nella modifica dell’art. 18 la via d’uscita per le aziende per liberarsi dell’aumentata forza lavoro anziana, solitamente più costosa e meno produttiva.
La stesso vincolo alla crescita dimensionale delle imprese rappresentato dall’art. 18 è smentito da molti studi, come segnalato recentemente anche da Fabiano Schivardi su «Lavoce.info». Pensare poi che le imprese estere non investano in Italia per la troppa rigidità del mercato del lavoro è privo di fondamento, come confermano le indagini internazionali sulle motivazioni dei limiti all’investimento diretto estero, che segnalano per l’Italia la rilevanza di ben altri problemi (in primis i livelli di corruzione e l’incertezza dell’applicazione del quadro normativo-istituzionale). Se poi, come strategia di crescita, si intendesse attrarre investimenti esteri deregolamentando il mercato del lavoro e riducendo ulteriormente i salari, si continuerebbe a spingere il nostro Paese su un sentiero di sviluppo a bassa innovazione e bassa produttività, con le ricadute negative sulla crescita già evidenti nel decennio pre-crisi, caratterizzato dalla forte flessibilizzazione del mercato del lavoro e dalla caduta dell’intensità di capitale delle nostre imprese.
Alla luce poi dell’importanza attribuita nelle scorse settimane dal governo al problema della lunghezza e dell’incertezza delle cause di lavoro, che paralizzerebbe le imprese, stupisce che non si siano previsti interventi migliorativi sul rito giudiziario. Al contrario, come evidenziato in questi giorni da molti giuslavoristi, la disciplina che sembra emergere potrebbe aumentare in misura sostanziale i tempi delle cause di lavoro. Sulla base di queste considerazioni, appare quindi evidente, come dichiarato più volte anche dal neo-presidente di Confindustria Squinzi, che aumentare la licenziabilità dei lavoratori italiani sia l’ultimo dei problemi della nostra economia. Ci sono quindi seri indizi che l’esito della discussione fra governo e parti sociali sia motivato più da elementi ideologici, magari contenuti nelle richieste delle istituzioni europee e di non meglio definiti mercati internazionali, che da un’attenta analisi della problematica in esame.
L’Unità 23.03.12