Profumo si è impegnato ad accogliere almeno in parte le modifiche suggerite dal Pd. Ma i due decreti su diritto allo studio e turn over che oggi porterà in Consiglio dei ministri sono stati bocciati dai Democratici. Ma come? Non bisognava sbloccare il sistema e fare largo ai giovani? Certo,ma per ora l’università, guidata dal governo tecnico, rischia di continuare ad andare in direzione opposta. «Ci aspettavamo un cambio di passo rispetto al passato recente, necessario a rilanciare l’università: purtroppo non c’è stato», chiosa, con amarezza, la capogruppo del Pd nella Commissione Cultura, Manuela Ghizzoni, reduce dall’esame dei due provvedimenti che oggi il ministro Profumo porterà in Consiglio dei ministri. Due nuovi decreti attuativi della legge delega Gelmini: il primo riguarda il diritto allo studio, l’altro la possibilità di spesa degli atenei, che si vedono legare le mani con un nuovo blocco del turn over. Il Pd, ieri, in commissione Cultura, li ha bocciati entrambi. E, per di più, ha fatto mettere a verbale che introdurre un nuovo blocco del turn over in un decreto attuativo delle legge delega sull’università è illegittimo. «Quella legge, che noi non abbiamo mai apprezzato, non delega il governo a decidere per decreto un eventuale nuovo blocco del turn over, se l’esecutivo vuole procedere in questo senso deve quanto meno farlo con una legge ordinaria che chiami a esprimersi nel merito lo stesso parlamento», spiega Ghizzoni. Sui decreti attuativi che oggi Profumo porterà di nuovo in Consiglio dei ministri per il varo definitivo, invece, il Parlamento era chiamato a esprimere solo un parere. Quello licenziato dalla Commissione Cultura della Camera, votato da Pdl e Terzo Polo, non ha avuto, appunto, il via libera del Pd, che ha motivato il suo voto contrario, tanto sul diritto allo studio, quanto sui vincoli di spesa, con argomenti molto pesanti. In particolare, sul blocco del turn-over. Addirittura più severo di quello fissato dal governo Berlusconi. Se la legge 133, che cesserà i suoi effetti a dicembre 2012, imponeva agli atenei un turn over non superiore al 50%, ovvero un’assunzione ogni due pensionamenti, nel testo approdato in Parlamento con la firma del nuovo ministro, pur distinguendo tra atenei “virtuosi” e non, il turn over risulterebbe bloccato dell’80%, con una media nazionale, atenei “virtuosi” a parte, di due assunzioni ogni dieci pensionamenti. Prima, al Senato, il Pd ha cercato di introdurre dei correttivi, suggerendo, per esempio, all’esecutivo di riportare un eventuale blocco sotto al 60% e di non protrarlo oltre il prossimo triennio (nel testo originario non c’era neppure un termine temporale). Poi, alla Camera, ha affondato il colpo, votando contro un parere del relatore giudicato troppo troppo poco critico. Specie a fronte delle proteste che si sono levate da rettori, docenti, studenti e ricercatori. Oltretutto, la promessa del ministro, che ai Senatori aveva assicurato la disponibilità a introdurre delle modifiche, ha vacillato di fronte al timore che la Ragioneria dello Stato potrebbe non essere d’accordo. Come è già accaduto conle 10mila assunzioni, cancellate all’ultimo dal decreto semplificazioni per ragioni di bilancio. Il decreto giunge quindi oggi in Cdm, con la contrarietà del Pd. «Non si può continuare a sbattere la porta in faccia ai giovani:nell’ultimo triennio si sono già persi 6mila docenti», spiega Ghizzoni, molto critica anche con i vincoli di spesa imposti agli atenei: «Se vorranno trovare le risorse per nuove assunzioni, dovranno decidere di aumentare ancora le tasse universitarie ». Tanto più che i finanziamenti per il Fondo di finanziamento ordinario restano incerti. D’altra parte sempre sugli studenti, si scaricheranno i costi del diritto allo studio. Il decreto che giungerà a Palazzo Chigi oggi prevede un aumento delle tasse che va dal 20 al 100%. E anche se le risorse stanziate sono più dello scorso anno (da 110 milioni su passa a 165 milioni, mentre le Regioni si sono impegnate a mettere un altro 40%), non saranno sufficienti a garantire la borsa di studio a tutti gli aventi diritto. Lo scorso anno rimasero fuori il 30%:per dare a tutti la borsa sarebbero stati necessari 567milioni. Sommando tutte le risorse messe in campo dal nuovo esecutivo non si va oltre i 400 milioni. «A meno che non intendano ridurre la platea degli aventi diritto, abbassando a 16mila euro l’Isee per accedere allle borse», osserva Ghizzoni. Decisione che, non ancora scritta nero su bianco e rinviata a un successivo provvedimento, ovviamente già vede contrario il Pd.
L’Unità 23.03.12
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Se la borsa di studio diventa un miraggio. Italia ultima in Europa
La Francia eroga 525mila sostegni, la Germania 510mila: da noi sono 150mila
Dice una nota canzone di lotta degli anni 60 che «anche l’operaio vuole il figlio dottore». Erano gli anni del boom economico e le fasce più deboli della popolazione si affacciavano per la prima volta all’istruzione superiore, all’università che sarebbe diventata “di massa”. A distanza di 40 anni si può ancora dire che secondo dettato costituzionale, «i capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi» (art. 34)? «Non per tutti, la condizione delle famiglie è cambiata con la crisi, i genitori non possono più permettersi non solo l’iscrizione agli atenei dei figli ma anche tutto quello che comportano in spese per i libri, l’alloggio, e i trasporti», nota Claudio Riccio, portavoce nazionale della Rete della Conoscenza, organizzazione che riunisce universitari, dottorandi, accademici e che si occupa proprio del tema del diritto allo studio. «All’Università si sta creando una selezione di censo, gli effetti saranno sotto gli occhi di tutti fra circa 4 anni». Il fatto è che l’Italia è da sempre carente su questo terreno. In Francia e in Germania (che hanno all’incirca lo stesso numero di studenti del nostro paese) beneficiano della borsa di studio rispettivamente 525mila e 510mila iscritti contro i 150mila del Bel Paese. Anche la Spagna investe nel diritto allo studio3volte che l’Italia (dati: Osservatorio regionale del Piemonte per l’Università e per il diritto allo studio universitario). Il governo Berlusconi ha tagliato del 94% (in tre anni) il fondo per le borse di studio, portandolo dai 246 Milioni di euro del 2009 a 26 Milioni nel 2012. Per l’anno 2013 il finanziamento previsto è di soli 12,9 milioni, ovvero il 95% in meno rispetto al 2009. Inoltre solo nello Stivale è presente la figura dell’“idoneo non vincitore” (quest’anno sono stati 45mila)e cioè una persona che avrebbe i requisiti giusti, di reddito e di merito, per accedere alle borse di studio o alla casa dello studente ma non può usufruirne perché è lo Stato a non avere le risorse per erogarle. O meglio le Regioni. Il diritto allo studio è infatti ad oggi articolato su base regionale, con gli enti territoriali per il diritto allo studio. E con i tagli agli enti locali sono state diverse le Regioni che non sono riuscite a garantire la copertura dei servizi. I casi che fanno scuola sono quelli del Piemonte e del Lazio. Il Piemonte fino a due anni fa era considerata una regione modello per i servizi agli studenti con reddito basso. Ora il completo cambio di rotta della giunta leghista: zero euro in bilancio e dal 100%di borse di studio erogate agli aventi diritto con la precedente amministrazione si è passati al30%. Che significa che 8mila ragazzi quest’anno non riceveranno nessun contributo. Più o meno la stessa situazione si è verificata nel Lazio di Renata Polverini. Qui le borse di studio sono pagate con un tale ritardo che gli studenti si ritrovano senza le risorse promesse e necessarie per pagare l’affitto, i libri, le spese. La giunta Polverini ha tagliato nel corso della sua legislatura diverse volte i fondi per il diritto allo studio, nella regione che ospita La Sapienza di Roma, ossia l’ateneo più grande d’Europa. Gli studenti iscritti in Piemonte e nelle università del Lazio protestano da mesi ma non sono pochi gli esperti che ritengono che queste due regioni non rappresentino un’eccezione ma, al contrario, quello che succederà da qui a poco in tutto il resto del paese. All’analisi del Consiglio dei ministri oggi ci sarà infatti un decreto di riforma della materia concepito però dall’ex ministro Maria Stella Gemini e lasciato in “eredità” al governo Monti. Tra i nodi l’aumento di tutte le tasse regionali per il diritto allo studio che potrà arrivare fino a 200 euro a fronte di finanziamenti ulteriormente ridotti, «come dire che il diritto allo studio se lo pagheranno gli studenti con le loro tasse», nota Luca Spadon, portavoce di Link, associazione che riunisce gli atenei di oltre 14città. «Siamo il terzo paese in Europa per tasse universitarie ma senza politiche sul diritto allo studio e senza politiche per gli studenti lavoratori, che poi vengono pure definiti “sfigati”». Allo studio anche l’innalzamento del limite di 16 mila euro di Isee (oggi è 18 mila) per partecipare ai bandi. Il che porterebbe a un’ulteriore restringimento dell’utenza del 10%. «Una famiglia media ha circa 35 mila euro di Isee, a 18 mila è già molto povera, restringere ancora significa impedire a nuclei in difficoltà la possibilità di prendere i benefici», spiega ancora Link. Sullo stesso punto si battono anche i Giovani democratici: «La è situazione problematica, vogliono risolvere il problema degli idonei non vincitori diminuendo il numero degli idonei», commenta Carlo Mazzei, responsabile Università Gd di Roma. Rimangono nel decreto anche i riferimenti al prestito d’onore, uno strumento che finora ha funzionato male e con il quale, sostanzialmente, lo studente si indebita. Critica anche Federica Laudisa, ricercatrice all’Osservatorio regionale del Piemonte per il diritto allo studio: «se rimangono questi i finanziamenti lo Stato non ce la farà a pagare le borse di studio secondo i parametri previsti dal decreto della Gelmini, mancano fondi e le Regioni faranno le loro valutazioni politiche. Saranno ancora di più gli studenti che pur avendo i requisiti rimarranno esclusi. È un contesto critico e non si vedono spiragli». In pratica: «il decreto non è coperto da un’adeguata copertura finanziaria che, peraltro, non è nemmeno stabilita. Se lo Stato è in crisi economica, e lo è, i soldi saranno messi su altro ». «Le scelte politiche degli ultimi anni e la crisi hanno avuto un solo risultato – conclude Link – che è diventato difficile pagarsi gli studi. Stiamo tornando a un’università d’elite».
L’Unità 23.03.12