Norma contro le dimissioni in bianco e una sperimentazione dei congedi di paternità obbligatori per tre anni, finanziata del ministero del Lavoro. Sono le due novità uscite ieri dall’incontro tra governo e parti sociali sulla riforma del mercato del lavoro. Insieme all’accordo raggiunto sulla data: i nuovi ammortizzatori sociali, uno dei pilastri della riforma, entreranno in vigore, a regime, dal 2017, come avevano chiesto le parti sociali al ministro del Welfare, Elsa Fornero, che invece aveva proposto il 2015 come data d’inizio. E’ un fatto non da poco. Significa che si avrà una fase transitoria, con un’applicazione graduale dei nuovi strumenti di sostegno al reddito in caso di perdita del lavoro.
La sperimentazione dei congedi di paternità obbligatori «è un modo per far cambiare la mentalità: la maternità non è un fatto solo di donne. Bisogna conciliare i tempi del lavoro con quelli della famiglia», ha spiegato il ministro Fornero.
Ma è il capitolo sugli ammortizzatori sociali a rappresentare un cambiamento «rivoluzionario», almeno per il nostro Paese: invece di difendere il posto di lavoro, con il nuovo sistema di ammortizzatori si punta a proteggere il lavoratore. E’ un salto culturale indispensabile per aumentare flessibilità in entrata e in uscita e favorire l’ingresso dei giovani. Non a caso la discussione sugli ammortizzatori è avvenuta prima di qualsiasi altro tema e ha messo d’accordo le parti. L’obiettivo è che «il lavoratore non sia lasciato solo nel deserto», afferma Fornero aggiungendo che la quantificazione delle risorse addizionali per l’estensione degli ammortizzatori sociali è stata fatta crescere fino a 1,7-1,8 miliardi di euro e che non manca la copertura.
Anche il sindacato ha apprezzato: «Siamo soddisfatti sugli ammortizzatori che sono stati confermati», ha commentato ieri il leader della Cisl Raffaele Bonanni. Anche se «serve il mantenimento dei contratti di solidarietà come avviene in Germania e occorrono maggiori politiche attive per il reimpiego», ha poi aggiunto. Insomma, la strada è giusta, ma può essere ancora migliorata. La trattativa tra le parti sociali riprenderà domani alle 16.
Alla base del nuovo sistema di sostegno al reddito c’è l’Aspi, l’acronimo sta per Assicurazione sociale per l’impiego. La nuova assicurazione andrà a sostituire l’indennità di mobilità, di disoccupazione ordinaria, con requisiti ridotti e quella speciale edili. Con gli attuali strumenti, secondo il governo, prevale la tutela nel posto di lavoro anche nei casi in cui la ripresa dell’attività lavorativa è altamente improbabile. E dunque la tutela si configura soprattutto come uno scovolo assai lungo verso la pensione.
L’Aspi dovrebbe essere uno strumento universale di assicurazione del rischio di disoccupazione involontaria, che possa coprire in proporzione anche i lavoratori con minore esperienza lavorativa. Uno dei punti deboli degli attuali ammortizzatori è che non includono i lavoratori che hanno contratti atipici e, dunque, la maggioranza dei giovani. La riforma punta invece ad allargare l’ombrello anche su di loro.
Per poter accedere all’Aspi si devono avere gli stessi requisiti che attualmente permettono di fruire dell’indennità di disoccupazione ordinaria: due anni di anzianità assicurativa e almeno 52 settimane nell’ultimo biennio. Più ampio invece l’ambito di applicazione, che sarà esteso anche agli apprendisti e agli artisti dipendenti che oggi sono esclusi da ogni strumento di sostegno del reddito.
L’assegno avrà un importo massimo di 1.119,32 euro, con abbattimento dell’indennità del 15% dopo i primi 6 mesi e un ulteriore 15% di abbattimento dopo altri 6 mesi. Durerà fino a 12 mesi per i lavoratori con meno di 55 anni di età; 18 mesi per chi avrà almeno 55 anni. Tutti i lavoratori dovranno contribuire all’Aspi, con modalità diverse a seconda della forma contrattuale: l’aliquota sarà dell’1,3% per chi è assunto a tempo indeterminato; incrementata di un’aliquota aggiuntiva dell’1,4% per gli altri.
La scomparsa della mobilità rischia di penalizzare soprattutto i lavoratori over 50. Se i giovani con l’Aspi guadagnano in termini di copertura e di soldi, si indebolisce la protezione dei lavoratori anziani, cioè quelli con maggiori difficoltà a reinserisi nel mondo del lavoro. Con l’Aspi le aziende perderanno infatti lo sgravio fiscale di cui beneficiano se assumono i lavoratori in mobilità.
L’introduzione graduale degli ammortizzatori sociali darebbe più tempo ai lavoratori anziani in mobilità di arrivare alla pensione, anche grazie al sostegno dei contributi aziendali. Oggi in caso di licenziamenti collettivi la mobilità può arrivare fino a 48 mesi per gli ultracinquantenni al Sud. Con la proposta del governo questo istituto verrebbe cancellato, ma potrebbe essere sostituito da un fondo di solidarietà, dal quale attingere un sussidio per i lavoratori che raggiungerebbero la pensione entro i 4 anni dal licenziamento. Salterebbe quindi il contributo previsto dal governo, dello 0,3% della retribuzione per la mobilità a carico delle aziende che possono usufruire di questo strumento (le imprese industriali con almeno 15 dipendenti o quelle commerciali con almeno 200 lavoratori). Le aziende però si troverebbero a pagare un «contributo di licenziamento»: mezza mensilità ogni anno per gli ultimi 3 anni.
La riforma degli ammortizzatori sociali non tocca la cassa integrazione ordinaria e straordinaria, ma introduce fondi di solidarietà per superare la cassa integrazione in deroga, attualmente a carico dello Stato e che è stata introdotta dall’ex ministro del Welfare Maurizio Sacconi nel 2009, per estendere il sussidio anche alle piccole imprese e ai settori esclusi dalla Cig.
Il Corriere della Sera 21.03.12