«Niente birra e panini al numero 10 di Downing Street», era il motto di Margareth Thatcher ai tempi della storica vertenza con i minatori inglesi. Nella Gran Bretagna di Iron Lady con i sindacati non si trattava. Trent´anni dopo, nell´Italia di Mario Monti le porte di Palazzo Chigi sono aperte: con le parti sociali si tratta, e si è trattato a lungo in questi giorni e in queste settimane. Ma il risultato pratico è lo stesso. Se i «corpi intermedi» della società condividono le scelte, tanto meglio. In caso contrario, il governo va avanti comunque. Lo strappo si è dunque compiuto. Il presidente del Consiglio ha deciso di scrivere la sua riforma del mercato del lavoro sacrificando la Cgil. Un sacrificio pesante, e gravido di conseguenze. È ancora una volta l´articolo 18 a segnare un decisivo cambio di fase, che modifica strutturalmente non solo le relazioni industriali, ma anche le consuetudini politiche del Paese. Dietro alla rottura tra Monti e Camusso c´è molto di più di un dissenso sulle nuove norme che regolano i licenziamenti. C´è la fine della concertazione, che ha scandito i rapporti tra politica ed economia nella Seconda Repubblica. C´è la fine di una costituzione materiale, che dal 1992 ha affiancato la Costituzione formale nelle fasi più acute della crisi italiana.
Nel passo compiuto dal governo c´è una svolta di merito. Anche nella legislazione giuslavoristica italiana cade quello che tutti consideravano l´ultimo tabù. L´articolo 18, cioè l´obbligo di reintegrare il lavoratore, resterà solo nei licenziamenti per motivi discriminatori, e varrà per tutte le aziende, comprese quelle con meno di 15 dipendenti. Ma a questa estensione «dimensionale» della tutela corrisponde una limitazione di quella «funzionale». Nei licenziamenti per motivi disciplinari soggettivi toccherà al giudice decidere se applicare la reintegra o l´indennizzo. E nei licenziamenti per motivi economici oggettivi scatterà solo l´indennizzo. Proprio quest´ultima è stata la molla che ha fatto scattare il no della Cgil.
Sarebbe ingeneroso liquidare questo no come il solito riflesso pavloviano di una deriva sindacale massimalista e conservatrice. La preoccupazione della Camusso, ancorché non del tutto condivisa da Bonanni e Angeletti, è tutt´altro che infondata. In questo nuovo schema l´articolo 18, di fatto, non viene «manutenuto», ma manomesso. I diritti si trasformano in moneta. Una forzatura paradossalmente accettabile, in un Paese che cresce a ritmi del 3% e crea un milione di posti di lavoro l´anno, o in un Paese che ha un sistema collaudato e coperto di flexsecurity scandinavo. Non nell´Italia di oggi, in piena recessione, con una disoccupazione giovanile del 29,7% e un nuovo sistema di ammortizzatori sociali che entrerà a regime solo nel 2017. In queste condizioni, la «via bassa» della produttività e della competitività scelta finora dalle imprese espone i lavoratori a un rischio oggettivo: qualunque crisi aziendale sarà regolata con i licenziamenti per motivi economici, al «prezzo» di un indennizzo che costerà poco più di un qualunque pre-pensionamento.
Questo aspetto non può essere trascurato, in un sistema produttivo che investe assai poco (negli ultimi dieci anni la quota di ammortamenti dell´industria è calato dal 6 al 3,7% rispetto al fatturato) e che già ora tende a far pagare ai più deboli il conto della crisi. È un problema serio, che indebolisce il molto di buono che pure c´è nella riforma del governo, dall´introduzione di una tutela universale per chi perde il lavoro al disincentivo alle troppe forme contrattuali che hanno perpetuato finora il massacro sociale del precariato. E stupisce che il premier giustifichi la decisione di scardinare l´articolo 18 con la necessità di far cadere un impedimento «vero o presunto» agli investimenti esteri in Italia. Non si comprime un diritto, in nome di una «presunzione». Se c´è anche solo un ragionevole dubbio che per le imprese straniere l´articolo 18 sia «un alibi» per non investire, allora le si convince con la forza dei numeri. E i numeri, oggi, dicono che su 160 mila cause di lavoro pendenti solo 300/500 sono attivate ai sensi di quella norma, che dunque è un falso problema.
Ma nel passo compiuto dal governo c´è anche una svolta di metodo. Monti lo spiega con una chiarezza esemplare. Quando riconosce il dispiacere per la rottura con la Cgil, ma aggiunge che il «potere di veto» non è più consentito a nessuno. Quando racconta di aver cercato fino all´ultimo il consenso di tutti, ma annuncia che al vertice finale di domani «non ci sarà alcuna firma» delle parti sociali su un documento del governo. Quando ammette che il dialogo con le parti sociali «è importantissimo», ma avverte che non può tradursi in una «cultura consociativa» che in passato ha scaricato il costo degli accordi sulla collettività. La cesura, culturale e politica, è chiarissima: il governo consulta, ma non concerta. Il suo unico interlocutore è il Parlamento, ripete più volte il premier. È al Parlamento che questo governo risponde, ed è in Parlamento che questo governo si andrà a cercare i numeri che servono a far passare questa riforma.
È un principio incontestabile. La sovranità del potere legislativo non è in discussione. Neanche (o meno che mai) per un governo tecnico che si regge su una convergenza tripartita, piuttosto che su una maggioranza organica. Ma anche qui ci sono due domande, che non possono essere evase. La prima domanda: il governo ha fatto davvero tutto il possibile per imbarcare anche la Camusso nell´intesa? Il dubbio è legittimo: l´impressione che in una parte del governo e del Parlamento vi siano forze che animate da una rivincita ideologica spingono per «dare una lezione» alla Cgil è forte, e non da oggi. Come è forte l´impressione che all´esecutivo, in fondo, non dispiaccia presentare a Bruxelles e ai mercati una riforma del lavoro accompagnata dallo «scalpo» del sindacato più importante, da esibire come un trofeo di «guerra».
La seconda domanda: il governo ha chiare le implicazioni politiche di questo strappo? L´accordo separato che esclude la Cgil riapre una drammatica spaccatura dentro il Pd. Il silenzio di Bersani è assordante, e rivela da solo l´enorme imbarazzo di un partito irrisolto, che sarà pure attraversato dalla faglia «socialdemocratica», ma che resta pur sempre l´«azionista di riferimento» del governo Monti. Il presidente del Consiglio non può non essere consapevole di cosa può accadere nel centrosinistra (e magari anche nella Lega) di qui al voto parlamentare sulla riforma. Caduto un tabù, può cadere anche un governo.
La Repubblica 21.03.12
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Articolo 18 ridotto al minimo Monti: “La questione è chiusa” solo Cgil dice no e prepara lo sciopero, di FRANCESCO BEI ROBERTO MANIA
L´articolo 18 dello Statuto dei lavoratori non c´è quasi più. Rimarrà solo per proteggere i licenziamenti discriminatori. Aveva resistito integro per oltre quarant´anni. Il governo Monti ha ottenuto il consenso di tutte le parti sociali, tranne quello della Cgil di Susanna Camusso. Per questo la riforma (che riguarda anche i contratti di entrata nel mercato del lavoro e i nuovi ammortizzatori sociali) è senza accordo, senza la firma di nessuno se non quella del governo. Sarà presentata così in Parlamento. Ci sarà poi un verbale nel quale saranno espresse le posizioni di sindacati e imprese. Dal Quirinale filtra il rammarico per la mancata intesa: «Forse – notavano ieri sera dal Colle – non tutti gli sforzi sono stati fatti da entrambe le parti».
ORE 8,30. TUTTI A PALAZZO CHIGI
Quella di ieri, dunque, è stata la lunga giornata del disaccordo con la Cgil. Cominciata presto perché il premier Mario Monti ha convocato alle 8,30 di mattina nel suo ufficio al primo piano di Palazzo Chigi i segretari generali di Cgil, Cisl, Uil e Ugl, e il presidente della Confindustria. Sanno già perché stanno lì. Monti ha già comunicato loro che non ci sono le condizioni di una firma condivisa da tutti. Sull´articolo 18 la Cgil non cambia linea, ma nemmeno il governo. «Abbiamo gli occhi del mondo addosso», fa notare il premier, mentre intorno a palazzo Chigi si sistemano i pulmini attrezzati delle tv internazionali. È da sabato scorso che lo scenario è mutato. A Milano, al convegno confindustriale, si è consumato lo strappo. «Sarà la riforma del governo – spiega Monti – ce ne assumeremo tutta la responsabilità in Parlamento». Anche se il Pd preferirebbe una legge delega (dai tempi più lunghi) al momento palazzo Chigi non esclude nulla, «nemmeno un decreto legge».
La riforma del mercato del lavoro è la prova del fuoco per il governo Monti. In gioco c´è la sua credibilità. Il premier sa anche che senza la Cgil «varrà di più sui mercati». Misurerà la profondità dei provvedimenti. Ritornerà, lungo la giornata, questo ragionamento.
ORE 11,00. SI TRATTA ANCHE AL MINISTERO DEL LAVORO
“Ristretta” di Monti con i sindacati. Nelle liturgie sindacali sono le riunioni che contano, quelle durante le quali si decide il da farsi. Bonanni dice sì ma Angeletti nicchia ancora. Camusso è per il no. Al ministero del Lavoro gli sherpa di sindacati e industriali hanno ripreso a scrivere i testi sugli ammortizzatori sociali e i contratti.
ORE 12,00. CAMUSSO, BONANNI E ANGELETTI
LASCIANO PALAZZO CHIGI
È mezzogiorno quando Camusso stanca e tesa in volto e con l´ennesima sigaretta tra le dita esce da Palazzo Chigi, insieme a Bonanni e Angeletti. L´unità d´azione sindacale è durata poco più dello spazio di un mattino. Ma Bonanni e Angeletti rispettano il patto che avevano sottoscritto: nessun accordo separato sul lavoro. D´altra parte nemmeno il governo lo avrebbe voluto. Entra Emma Marcegaglia che ha quasi stravinto: il suo predecessore Antonio D´Amato finì sconfitto nel 2002 quando aprì la battaglia sull´articolo 18. La Marcegaglia, in un contesto economico radicalmente diverso, ha fatto fare la battaglia al Professore ma dietro le quinte ha giocato la sua partita con tutte le sue sponde nel governo, dal ministro dello Sviluppo, Corrado Passera, al viceministro dell´Economia Vittorio Grilli. Finisce il mandato con lo scalpo dell´articolo 18. Anche nelle fabbriche del suo gruppo la Fiom sta scioperando per due ore a difesa dell´articolo 18. Ma è ininfluente.
ORE 13,00. I PICCOLI, “PRONTI ALL´ACCORDO”
Le piccole imprese avevano minacciato la rivolta a cominciare dalla disdetta dei contratti perché Fornero intendeva alzare i contributi per l´indennità di disoccupazione e per i contratti stagionali. Non passa né l´una né l´altra misura. I piccoli sono per buona parte il blocco sociale della destra. Il Pdl ha fatto pressing sul governo e ha portato a casa non poco. In cambio, però, il governo ha esteso alle aziende con meno di 15 dipendenti il diritto al reintegro in caso di licenziamento ingiustificato discriminatorio. Anche il direttore generale della Confindustria, Giampaolo Galli, protesta, dice che molte cose non vanno bene. Tatticismo negoziale. La Marcegaglia ha appena detto a Monti che la sua riforma è ok.
ORE 13,30. SI RIUNISCE LA SEGRETERIA DELLA CGIL MA CISL E UIL VANNO IN CONFINDUSTRIA
Quarto piano del palazzone di Corso d´Italia. I membri della segreteria nazionale del più grande sindacato sono già lì nella sala riunione ad aspettare la Camusso. Si fuma. C´è preoccupazione e rabbia. Per la prima volta da almeno dieci anni questo è il gruppo dirigente della Cgil che accetta di intervenire sull´articolo 18. La loro apertura però non è servita. Camusso è convinta e lo ripete ai suoi: «Il governo non voleva l´accordo. È un governo attento ai mercati e non ai lavoratori». Lo dirà anche in conferenza stampa. Gli scioperi li deciderà il Direttivo già convocato per oggi. Ma ci saranno. La Fiom di Maurizio Landini vuole lo sciopero generale. Camusso punta a una mobilitazione più lunga e articolata. «Non sarà una fiammata. Faremo di tutto per contrastare la riforma. Ci sarà tensione sociale», dice. Dal governo, in serata, si augurano tuttavia che «le modalità della mobilitazione si svolgano nel rispetto della dialettica democratica». Dura un paio d´ore la riunione. Alla fine una nota della segreteria che sancisce la rottura con il governo di professori: «L´obiettivo del governo sono i licenziamenti facili». A meno di un chilometro di distanza Raffaele Bonanni e Luigi Angeletti sono con Emma Marcegaglia in via Veneto alla Foresteria della Confindustria. Monti ha chiesto alla Marcegaglia di convincere Angeletti sui licenziamenti disciplinari. Ci riuscirà. Il governo sostiene che non era scontato «recuperare la Uil e la stessa Cisl che fino a qualche giorno fa parlava di macelleria sociale».
ORE 14,00. BERSANI: «TOCCA AL GOVERNO COLMARE
LE DISTANZE»
Il segretario del Pd invita a tener conto delle proposte della Cgil. Invano. Ora palazzo Chigi spera che il Pd non si divida sul provvedimento, ma in ogni caso si fa notare come durante il vertice dei segretari “ABC” anche da Bersani fosse venuto un via libera alla riforma. «Spetta al Parlamento decidere», ricorda comunque Bersani.
ORE 14,20. IL GOVERNO: MARGINI STRETTI, PREMONO I MERCATI
Monti fa sapere che i margini per un possibile compromesso non ci sono. Premono i mercati. Dice uno dei ministri: «Le proteste della Cgil dimostrano che la riforma è vera. Le critiche sono fisiologiche ma le avevamo messe in conto». Nella conferenza stampa finale il premier ricorda ancora che la riforma viene incontro alle raccomandazione della Commissione di Bruxelles e anche dell´Ocse. È la morsa che ha stretto la Cgil. «Nessun ha più un potere di veto», dice Monti e aggiunge: «Mi aspetto che le imprese raddoppino i loro investimenti ora che non avranno l´handicap o l´alibi, a seconda del punto di vista, di avere un trattamento dei licenziamenti diverso da quello delle economie più avanzate».
ORE 17,20. RIUNIONE IN SALA VERDE
AL TERZO PIANO
È l´epilogo. Tutto già previsto. Attorno al tavolo della grande Sala Verde al terzo piano di Palazzo Chigi si consuma l´ultimo rito di quella che non è mai stata un revival della concertazione. Monti cita Napolitano («prevalga l´interesse generale») e concede l´onore delle armi al segretario Cgil: «La ringrazio, signora Camusso, perché con il suo no ha fatto capire a tutti che governare non è facile. Spero però che, nelle forme e nei modi che vorrà, possa anche dire quello che c´è di buono in questa riforma».
ore 20,15. IL PREMIER, «STRINGIAMO PER FAVORE…»
«Signori, stringiamo per favore…», Mario Monti richiama il portavoce di Rete Imprese Italia, Marco Venturi, perché esprima rapidamente il suo giudizio.
ore 20,30. MONTI TELEFONA A NAPOLITANO
Il premier chiama il Quirinale: «Abbiamo finito, lo ritengo un successo». Ma il Capo dello Stato si raccomanda di evitare che «non essendoci un accordo su tutto, non si trasformi con la Cgil in una rottura su tutto».
La Repubblica 21.03.12