La possibilità di un accordo sul tema del mercato del lavoro si è allontanata dopo che nei giorni scorsi si era aperto qualche spiraglio. Sono riapparsi problemi di merito tutt’altro che secondari, a partire dalle tutele in materia di licenziamenti senza giusta causa (ma non solo da queste).C’è però un’evidente questione di metodo che sta condizionando negativamente il confronto e rischia seriamente di farlo naufragare. Quando si avvia un negoziato tra governo e parti sociali c’è un punto che non può mai venir meno: la fiducia reciproca che quello che si sta facendo è una scelta impegnativa che riguarda tutti allo stesso modo. Anche quando, e può capitare, il confronto non porta a un accordo condiviso. Il governo questa scelta non l’ha mai fatta con chiarezza, di volta in volta aprendo sia a una compiuta logica negoziale sia al suo opposto: cioè procedere in modo unilaterale. Naturalmente ogni governo ha la piena libertà di questa scelta, ma non ne può fare due opposte contemporaneamente perché così, aldilà del merito, si assume la responsabilità del fallimento. Fa parte di questa contraddizione la stessa ripetuta fissazione di un termine perentorio per la fine del negoziato. Che senso ha nel quadro di oggi legare questo alla missione nei Paesi orientali del presidente del Consiglio? Tanto più che i giorni persi sono stati conseguenza di una richiesta del governo di avere tempo per trovare le risorse pubbliche necessarie per il finanziamento dei nuovi ammortizzatori sociali… L’ostacolo fondamentale per l’accordo risiede comunque nel merito che, fermo restando il bisogno di avere un quadro più compiuto delle scelte del governo sui singoli punti dell’agenda, ancora vaghi su più di un aspetto, si può riassumere così: poco rispetto all’ambizione di ridisegnare una profonda riforma degli ammortizzatori sociali di tipo europeo, soprattutto per l’assenza di risorse come era stato abbondantemente detto; poco nella riduzione della precarietà rispetto al bisogno di semplificare realmente le oltre 40 tipologie contrattuali esistenti; tanto, tantissimo, nella riduzione delle tutele contro i licenziamenti ingiustificati e nello stravolgimento dell’articolo 18. L’asimmetria è troppo evidente anche nell’ottica riformista di valorizzare ogni progresso portato nelle condizioni di precari e lavoratori oggi privi di ogni tutela, e di ragionare sulle cose che vanno aggiustate sui licenziamenti, tanto più che si fa riferimento a un modello tedesco citato da aziende e governo in modo del tutto parziale e di comodo. In questo modo la «riformetta», come è stata chiamata dall’insospettabile Corriere della sera, diventa una vera e propria controriforma in tema di licenziamenti, nel momento in cui l’innalzamento dell’età di pensione apre problemi inediti a lavoratori e aziende. C’è poi un elemento che il governo dovrebbe valutare con attenzione. Una riforma non condivisa potrà forse far gioire qualche giornale anche internazionale, ma porta inevitabilmente a conseguenze più delicate. Innanzitutto una rottura sociale che non sarà occasionale, che avrà conseguenze per le aziende, e che riguarderà sia i profili giudiziari sia nel tempo quelli contrattuali. In secondo luogo si aprirà un inevitabile contenzioso sulle forme della traduzione legislativa delle scelte del governo. Come si può giustificare un decreto legge su materie che non hanno urgenza di tempi o di provvedimenti? Ma anche la scelta della delega senza un accordo si presta a tante obiezioni di metodo e opportunità. Infine finirà la luna di miele col governo nel nome dell’emergenza e della responsabilità se la lesione ai diritti dovesse essere confermata. Nei giorni scorsi contro l’intervento del governo spagnolo in tema di licenziamenti si sono mobilitati tutti i sindacati spagnoli fino alla proclamazione dello sciopero generale. E lì governa il centrodestra che ha vinto le elezioni. In Francia dentro una campagna per le elezioni presidenziali ispirata a molta concretezza di proposte e programmi un punto chiave oppone i due candidati: per Sarkozy bisogna governare senza il coinvolgimento delle parti sociali nel nome di un’idea di democrazia referendaria e diretta; per Hollande al contrario si deve continuare a coinvolgere l’insieme dei corpi intermedi nel nome di una democrazia sociale. La scelta che Monti farà, lo si voglia o no, finirà per avere anche un significato politico.
L’Unità 19-03-12