Trasparenza e controlli: zero. La lezione che impartisce la penosa vicenda dei rimborsi elettorali assegnati alla Margherita e finiti ancora non si sa esattamente dove, eccola. Per troppo tempo si è fatto finta di non vedere che i bilanci dei nostri partiti non rispondono a nessuno dei requisiti cui dovrebbe sottostare chiunque maneggi denaro pubblico. Verifiche esclusivamente formali, ipocrisie procedurali, opacità spesso garantita. Con l’aggravante che tutto questo è consentito da una legge dello Stato, approvata alla fine degli anni 90, alla quale è allegato persino un modello contenente le voci da compilare. Entrate, uscite, debiti, crediti, proprietà…
C’è proprio tutto. Ma i controlli? Il solo Partito democratico, dai tempi della segreteria di Walter Veltroni, affida volontariamente l’esame dei propri conti a una primaria società di revisione. Mentre il Fli di Gianfranco Fini ha recentemente introdotto questa disposizione nel suo statuto.
Nessun altro partito fa certificare il bilancio: semplicemente perché la legge non li obbliga a farlo.
Ai controlli ci pensa un collegio sindacale interno. Il quale è composto normalmente da fedelissimi della segreteria politica e dal tesoriere, che è il vero dominus delle finanze del partito. Tutto in famiglia, insomma, al riparo da occhi indiscreti. Dissociarsi da questa linea, come aveva fatto il Pd ai tempi di Veltroni coinvolgendo qualche controllore esterno, è un atto anch’esso volontario. La legge non prescrive assolutamente nulla circa l’indipendenza dei sindaci.
Vero è che i bilanci devono essere presentati al Parlamento, dove c’è un apposito comitato che ha l’incarico di esaminarli. Si tratta però di una presa d’atto squisitamente formale. Il comitato si limita a verificare che il documento contabile sia stato compilato correttamente, secondo il famoso modulo allegato a quella legge approvata alla fine degli anni 90. Altro non può fare.
Di più. Nonostante i partiti siano finanziati con una valanga di contributi pubblici, la Corte dei conti non ha alcuna possibilità di metterci il becco. L’unico compito che le è affidato è quello di esaminare i rendiconti delle spese elettorali. Senza però alcun potere sanzionatorio: i magistrati si devono limitare a segnalare al Parlamento eventuali irregolarità. La legge impone poi che i bilanci siano resi pubblici. E ci mancherebbe altro. Finiscono sulla Gazzetta Ufficiale e su qualche giornale. Nessuna norma, però, stabilisce che i conti dei partiti debbano essere accessibili pure su Internet. Con il risultato che talvolta si è costretti a una specie di caccia al tesoro per rintracciarli. La forma, come sempre, è salva. La sostanza molto meno.
Si potrebbe continuare ricordando che con un decreto «mille proroghe», varato poche settimane prima delle elezioni politiche del 2006, è stata portata a 50.000 euro la soglia al di sotto della quale un contributo privato a un partito può restare comodamente anonimo. Ma già ce ne sarebbe abbastanza per pretendere che la legge sui bilanci delle organizzazioni politiche venga cambiata con la velocità del fulmine, introducendo controlli reali su come i nostri soldi vengono spesi. In Parlamento ci sono già delle proposte in tal senso. Perché non si tolgono dai cassetti e non vengono immediatamente discusse? La fiducia nei partiti da parte dei cittadini è già ai minimi storici: la maleodorante storia dei soldi della Margherita può essere una mazzata letale.
Corriere della Sera 18.3.12