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“Dispersi e disoccupati”, di Fabrizio Dacrema

Due recenti indagini ci forniscono un quadro decisamente allarmante per il futuro del paese: aumentano contemporaneamente i giovani che abbandonano gli studi senza aver conseguito un diploma o una qualifica e i laureati che non trovano lavoro. I dati Istat sulla dispersione scolastica attestano la crescita della dispersione scolastica e la distanza dell’Italia dagli obiettivi di Europa 2020. Il 18,8 per cento dei giovani 18-24enni abbandona gli studi senza conseguire un titolo di scuola media superiore o una qualifica professionale (la media europea è pari al 14,1 per cento). Vanno peggio i maschi che sono il 22 per cento, il mezzogiorno e le periferie delle metropoli. Secondo i dati in possesso del Ministero dell’Istruzione con la crisi economica si è interrotto il progressivo miglioramento che dal 2004 al 2010 aveva ridotto di quattro punti la dispersione scolastica. Secondo l’agenda di Lisbona già nel 2010 avremmo dovuto ridurre a non più del 10 per cento gli abbandoni e ora viene riproposto lo stesso obiettivo per il 2020.

La stessa agenda europea ci chiede di portare al 40 per cento il numero dei laureati, mentre oggi i giovani italiani tra i 30 e i 34 anni che ha conseguito un titolo di studio universitario è pari al 19,8% (la media Ocse è pari al 37 per cento).

A questo proposito l’ultima indagine Almalaurea conferma che in Italia, rispetto agli altri paesi europei, abbiamo meno giovani e meno laureati e, tuttavia, i nostri pochi laureati faticano più degli altri a trovare lavoro e, quando lo trovano, sono meno retribuiti e i rapporti di lavoro sono più precari. Non solo, gli ultimi dati Almalaurea ci dicono che la situazione sta anche peggiorando perché negli ultimi quattro anni i laureati disoccupati sono raddoppiati, è cresciuta la precarietà, è diminuito il potere d’acquisto degli stipendi.

Ovviamente un laureato continua ad avere più opportunità di lavoro di un non laureato: se un terzo dei giovani tra 18 e 25 anni è senza lavoro, i neo laureati disoccupati a un anno dalla laurea triennale nel 2011 sono il 19,4 per cento (11,2 nel 2008) e il 19,6 per cento quelli con laurea magistrale quinquennale (10,4 nel 2008).

Peggiora il divario tra nord e sud (da 13,5 punti di maggiore disoccupazione nel sud nel 2008 a 17 punti nel 2011), peggiorano le retribuzioni (da 1300 euro nel 2008 a 1100 nel 2011), cresce la precarietà (solo il 34 per cento degli assunti nel 2011 è a tempo indeterminato). Rimane pesante la discriminazione di genere: tra i laureati specialistici a un anno dal conseguimento della laurea lavora il 61 per cento degli uomini e il 54 per cento delle donne, il 37 per cento degli uomini ha un lavoro stabile contro il 31 per cento delle donne, gli uomini guadagnano il 29% in più delle donne e la situazione rimane simile anche a tre anni dalla laurea.

I limiti del sistema formativo e del sistema produttivo

Le due indagini, oltre a confermare i limiti strutturali del sistema formativo italiano, mettono in luce l’esistenza di un circolo vizioso con il sistema produttivo, il quale domanda meno conoscenze e competenze di quelle, già scarse, offerte dal sistema formativo.

Il sistema formativo, a sua volta, è inefficace perché perde troppi giovani rispetto all’obiettivo minimo di assicurare a tutti i giovani almeno un diploma o una qualifica professionale e perché riesce a far pervenire alla laurea troppi pochi giovani.

Tuttavia non è responsabilità del sistema formativo se i giovani con alti livelli di formazione non trovano lavoro. Secondo le tesi sostenute da molta parte del mondo imprenditoriale la responsabilità prioritaria della disoccupazione intellettuale italiana sarebbe del mismatch tra domanda e offerta di laureati, le cui competenze non sarebbero quelle ricercate dalle imprese italiane. In realtà i dati a disposizione smentiscono questa tesi: è innanzi tutto la domanda di laureati a essere bassa (solo 12,5 per cento contro il 31 USA), molto inferiore a quella dei paesi avanzati. Ciò è confermato anche dalle difficoltà incontrate a trovare occupazione anche dalle lauree più forti dal punto di vista occupazionale come ingegneria ed economia. La scarsa propensione del nostro sistema economico e produttivo ad assumere personale altamente qualificato è anche attestata dalla crescente tendenza dei giovani italiani a emigrare e dalla bassa attrattività del nostro paese nei confronti dei laureati stranieri. Infine precarietà e basse retribuzioni dimostrano ulteriormente lo scarso interesse del sistema produttivo italiano a valorizzare i giovani con alti livelli formativi.

Sono quindi i limiti strutturali del nostro sistema economico e produttivo (troppo frammentato, scarsamente innovativo e poco hi-tech) a tenere bassa la domanda di lavoro qualificato delle imprese.

Senza decisi interventi di svolta nelle politiche formative, economiche e industriali, è evidente che sono disincentivati gli investimenti in formazione, sia individuali (negli ultimi anni sono diminuite le immatricolazioni) che collettivi (riforme per migliorare efficacia e qualità del sistema formativo), mentre il sistema economico continuerà a perdere competitività e a declinare, aumentando il gap tecnologico che ci divide dai paesi avanzati e, ormai, anche da non pochi paesi emergenti.

Invertire la tendenza al declino

Il primo segnale di inversione di tendenza non può non venire dalla fine della stagione dei tagli e dalla una ripresa degli investimenti nel sistema formativo. I dati Istat confermano che l’Italia investe poco in istruzione: l’incidenza sul Pil del settore istruzione è pari al 4,8% (dati risalenti al 2009 e quindi precedenti all’andata a regime dei tagli Tremonti-Gelmini) un valore inferiore rispetto a quello medio dell’Unione europea che è pari al 5,6%.

Occorre innanzi tutto rilanciare l’autonomia responsabile di scuole e università riattivando progressivamente i flussi di risorse professionali e finanziarie. Dopo i passi falsi del decreto semplificazioni, il Governo Monti deve dare segnali concreti di novità nelle politiche della conoscenza, in assenza dei quali non sono possibili per la crescita.

Sempre i dati Istat ci ricordano il deficit formativo della popolazione italiana tra i 25 e i 64 anni, il cui 45% ha la licenza media come titolo di studio più elevato, dato distante dalla media europea che è del 27,3% (dato del 2010) e ancor più preoccupante a fronte del misero 6,2 per cento di adulti impegnati in attività formative (15 per cento è l’obiettivo Europa 2020): ogni politica per l’innovazione e la crescita non può che aggredire questo limite strutturale attraverso diffusi interventi per l’apprendimento permanente. Di qui l’urgenza politica per una legge per il diritto apprendimento permanente (proposta di legge di iniziativa popolare) e di scelte rispondenti alle “10 proposte per i diritto all’apprendimento permanente” presentate dalla Cgil insieme a Flc Cgil, Spi Cgil, Agenquadri, Auser, Edaforum.

da ScuolaOggi 17.03.12

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“Dispersi e disoccupati”, di Fabrizio Dacrema

Due recenti indagini ci forniscono un quadro decisamente allarmante per il futuro del paese: aumentano contemporaneamente i giovani che abbandonano gli studi senza aver conseguito un diploma o una qualifica e i laureati che non trovano lavoro. I dati Istat sulla dispersione scolastica attestano la crescita della dispersione scolastica e la distanza dell’Italia dagli obiettivi di Europa 2020. Il 18,8 per cento dei giovani 18-24enni abbandona gli studi senza conseguire un titolo di scuola media superiore o una qualifica professionale (la media europea è pari al 14,1 per cento). Vanno peggio i maschi che sono il 22 per cento, il mezzogiorno e le periferie delle metropoli. Secondo i dati in possesso del Ministero dell’Istruzione con la crisi economica si è interrotto il progressivo miglioramento che dal 2004 al 2010 aveva ridotto di quattro punti la dispersione scolastica. Secondo l’agenda di Lisbona già nel 2010 avremmo dovuto ridurre a non più del 10 per cento gli abbandoni e ora viene riproposto lo stesso obiettivo per il 2020.

La stessa agenda europea ci chiede di portare al 40 per cento il numero dei laureati, mentre oggi i giovani italiani tra i 30 e i 34 anni che ha conseguito un titolo di studio universitario è pari al 19,8% (la media Ocse è pari al 37 per cento).

A questo proposito l’ultima indagine Almalaurea conferma che in Italia, rispetto agli altri paesi europei, abbiamo meno giovani e meno laureati e, tuttavia, i nostri pochi laureati faticano più degli altri a trovare lavoro e, quando lo trovano, sono meno retribuiti e i rapporti di lavoro sono più precari. Non solo, gli ultimi dati Almalaurea ci dicono che la situazione sta anche peggiorando perché negli ultimi quattro anni i laureati disoccupati sono raddoppiati, è cresciuta la precarietà, è diminuito il potere d’acquisto degli stipendi.

Ovviamente un laureato continua ad avere più opportunità di lavoro di un non laureato: se un terzo dei giovani tra 18 e 25 anni è senza lavoro, i neo laureati disoccupati a un anno dalla laurea triennale nel 2011 sono il 19,4 per cento (11,2 nel 2008) e il 19,6 per cento quelli con laurea magistrale quinquennale (10,4 nel 2008).

Peggiora il divario tra nord e sud (da 13,5 punti di maggiore disoccupazione nel sud nel 2008 a 17 punti nel 2011), peggiorano le retribuzioni (da 1300 euro nel 2008 a 1100 nel 2011), cresce la precarietà (solo il 34 per cento degli assunti nel 2011 è a tempo indeterminato). Rimane pesante la discriminazione di genere: tra i laureati specialistici a un anno dal conseguimento della laurea lavora il 61 per cento degli uomini e il 54 per cento delle donne, il 37 per cento degli uomini ha un lavoro stabile contro il 31 per cento delle donne, gli uomini guadagnano il 29% in più delle donne e la situazione rimane simile anche a tre anni dalla laurea.

I limiti del sistema formativo e del sistema produttivo

Le due indagini, oltre a confermare i limiti strutturali del sistema formativo italiano, mettono in luce l’esistenza di un circolo vizioso con il sistema produttivo, il quale domanda meno conoscenze e competenze di quelle, già scarse, offerte dal sistema formativo.

Il sistema formativo, a sua volta, è inefficace perché perde troppi giovani rispetto all’obiettivo minimo di assicurare a tutti i giovani almeno un diploma o una qualifica professionale e perché riesce a far pervenire alla laurea troppi pochi giovani.

Tuttavia non è responsabilità del sistema formativo se i giovani con alti livelli di formazione non trovano lavoro. Secondo le tesi sostenute da molta parte del mondo imprenditoriale la responsabilità prioritaria della disoccupazione intellettuale italiana sarebbe del mismatch tra domanda e offerta di laureati, le cui competenze non sarebbero quelle ricercate dalle imprese italiane. In realtà i dati a disposizione smentiscono questa tesi: è innanzi tutto la domanda di laureati a essere bassa (solo 12,5 per cento contro il 31 USA), molto inferiore a quella dei paesi avanzati. Ciò è confermato anche dalle difficoltà incontrate a trovare occupazione anche dalle lauree più forti dal punto di vista occupazionale come ingegneria ed economia. La scarsa propensione del nostro sistema economico e produttivo ad assumere personale altamente qualificato è anche attestata dalla crescente tendenza dei giovani italiani a emigrare e dalla bassa attrattività del nostro paese nei confronti dei laureati stranieri. Infine precarietà e basse retribuzioni dimostrano ulteriormente lo scarso interesse del sistema produttivo italiano a valorizzare i giovani con alti livelli formativi.

Sono quindi i limiti strutturali del nostro sistema economico e produttivo (troppo frammentato, scarsamente innovativo e poco hi-tech) a tenere bassa la domanda di lavoro qualificato delle imprese.

Senza decisi interventi di svolta nelle politiche formative, economiche e industriali, è evidente che sono disincentivati gli investimenti in formazione, sia individuali (negli ultimi anni sono diminuite le immatricolazioni) che collettivi (riforme per migliorare efficacia e qualità del sistema formativo), mentre il sistema economico continuerà a perdere competitività e a declinare, aumentando il gap tecnologico che ci divide dai paesi avanzati e, ormai, anche da non pochi paesi emergenti.

Invertire la tendenza al declino

Il primo segnale di inversione di tendenza non può non venire dalla fine della stagione dei tagli e dalla una ripresa degli investimenti nel sistema formativo. I dati Istat confermano che l’Italia investe poco in istruzione: l’incidenza sul Pil del settore istruzione è pari al 4,8% (dati risalenti al 2009 e quindi precedenti all’andata a regime dei tagli Tremonti-Gelmini) un valore inferiore rispetto a quello medio dell’Unione europea che è pari al 5,6%.

Occorre innanzi tutto rilanciare l’autonomia responsabile di scuole e università riattivando progressivamente i flussi di risorse professionali e finanziarie. Dopo i passi falsi del decreto semplificazioni, il Governo Monti deve dare segnali concreti di novità nelle politiche della conoscenza, in assenza dei quali non sono possibili per la crescita.

Sempre i dati Istat ci ricordano il deficit formativo della popolazione italiana tra i 25 e i 64 anni, il cui 45% ha la licenza media come titolo di studio più elevato, dato distante dalla media europea che è del 27,3% (dato del 2010) e ancor più preoccupante a fronte del misero 6,2 per cento di adulti impegnati in attività formative (15 per cento è l’obiettivo Europa 2020): ogni politica per l’innovazione e la crescita non può che aggredire questo limite strutturale attraverso diffusi interventi per l’apprendimento permanente. Di qui l’urgenza politica per una legge per il diritto apprendimento permanente (proposta di legge di iniziativa popolare) e di scelte rispondenti alle “10 proposte per i diritto all’apprendimento permanente” presentate dalla Cgil insieme a Flc Cgil, Spi Cgil, Agenquadri, Auser, Edaforum.

da ScuolaOggi 17.03.12