Un maestro è colui che, nella cornice di un relazione viva, risveglia in un altro essere umano forze e sogni potenziali e ancora latenti. Egli è chiamato a fare della propria unicità e del proprio intimo coltivarsi (la sua cultura) un dono al discepolo, che altrimenti non desidererà coltivare sé stesso, scoprendo chi è e che storia irripetibile è venuto a raccontare. Il maestro in sostanza è un pro-vocatore: uno che chiama l’altro ad assumere la propria vita come compito, come vocazione. Diventa te stesso, dice in ogni suo gesto e parola. Questo hanno fatto Socrate, Confucio, Cristo, Buddha, questo fanno tanti sconosciuti maestri nelle aule. Ma cosa autorizza un uomo o una donna a fare questo con un altro essere umano?
Invece di tirar fuori zanne e artigli, il cucciolo d’uomo è costretto ad un lunghissimo svezzamento senza il quale non è autosufficiente. Il bambino prima (e l’adolescente dopo) ha bisogno di essere accudito ed educato, altrimenti non sopravvive. Dovranno occuparsene la madre che lo ha generato, che instaura una relazione protettiva, come il grembo in cui lo ha custodito per nove mesi, e il padre che invece ha il compito di spingerlo ad affrontare il mondo aiutandolo a resistere e convivere con le proprie paure. Se un papà lancia in aria il bambino, la mamma impaurita chiederà di metterlo giù. La mamma lo ancora alla madre-terra, allo spazio orizzontale, il padre invece con le sue braccia forti lo lancia verso lo spazio verticale, il futuro: il bambino rimane sospeso, senza fiato, ma sa che le braccia lo aspettano di nuovo. Il padre educa il figlio all’assenza, al silenzio, alla distanza. Gli insegna la pazienza e l’attesa, mentre la madre è in contatto fisico diretto e accogliente, lo protegge dall’esterno. Abbiamo imparato ad andare in bicicletta con i nostri padri. Rimanevano distanti e ci dicevano: «Ora vai, non aver paura. Se succede qualcosa io sono qui». La nostra mamma sarebbe invece salita sulla bici al posto nostro e ci avrebbe detto «tu stai seduto là, mangia la merenda e guarda».
Gli insegnanti sono chiamati ad una sintesi dei due ruoli genitoriali, paterno e materno. Proteggere e sfidare, contenere e lanciare, con sapiente gradualità e studente per studente. Non tutti i docenti riescono in questo difficile compito, continuamente da riaffermare; può allora supplire l’equilibrio tra il numero di figure maschili e quello di figure femminili presenti in un consiglio di classe. Ma questo nella scuola italiana di oggi è quasi impossibile. La prevalenza di figure femminili è un dato di fatto che ha radici semplici: quale padre può mantenere oggi una famiglia facendo l’insegnante? L’insegnamento è un mestiere di appoggio, possibile solo per chi può permetterselo in termini di impegno di ore e di stipendio. Dobbiamo forse introdurre delle quote azzurre nella scuola o basterebbe migliorare le condizioni economiche di un docente?
Questa situazione si riflette (o è il riflesso) di una prassi familiare. Sono rari i casi in cui ai colloqui con i docenti si presentano i papà, rarissimi quelli in cui ai colloqui sono presenti entrambi i genitori. Come mai? Forse l’educazione è affare di uno solo? O affare solo delle mamme?
L’assenza o marginalità dello stile maschile nell’educazione familiare e scolare non è privo di conseguenze. Le scorgo nei miei studenti: insicuri e fragili, perché a volte privi o privati della autostima che un adolescente interiorizza grazie soprattutto alla figura paterna. Per una ragazza di 14-15 anni l’uomo più importante è suo padre, non certo il fidanzato. Diventano vittime della loro emotività elevata a sistema di valutazione del reale, poco educati come sono alla tenuta, al dolore, al silenzio, alla frustrazione in vista di un obiettivo ancora lontano.
Freud ha chiarito una volta per tutte che il padre è colui che pone il limite, mentre la madre eliminerebbe ogni ostacolo sul cammino del figlio. Il padre insegna che la vita va resa sacra (sacrificata) per qualcosa o qualcuno, mentre per la madre è la vita stessa del figlio ad essere sacra. La madre dà la vita, il padre invece ricorda che c’è la morte: quindi la vita va spesa per qualcosa. Sono necessari entrambi per l’equilibrio della donna e dell’uomo in formazione.
«Questo è il dovere di un padre: abituare il figlio a comportarsi bene da sé, e non per timore degli altri. La differenza tra un padre e un padrone sta qui. Chi non ne è capace, confessi che non sa farsi obbedire dai figli». Proprio in questi giorni sto lavorando con i miei studenti su I fratelli di Terenzio, da cui sono tratte queste parole e dalle quali (insieme ad una collega) partiremo per un approfondimento sui sistemi educativi antichi e moderni, passando per l’epocale «We don’t need no education» dei Pink Floyd. Dopo più di 30 anni da quell’urlo liberatorio, ci rendiamo conto che abbiamo sempre più bisogno di «education», per primi gli adulti con compiti di guida e di potere, spesso troppo impegnati a perseguire il bene particolare e il profitto, per fare onore ai maestri, che hanno in custodia le donne e gli uomini del futuro, il vero bene comune di un Paese.
La Stampa 16.03.12
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“Salvate gli ultimi prof maschi”, di SARA RICOTTA VOZA
C’ è una «questione maschile» in Italia e, a guardare solo la politica e l’economia, non ce ne eravamo neanche accorti. Infatti riguarda ambiti professionali in cui il potere è poco e il denaro ancora meno: scuola, educazione, cura. La «questione» affiora in due dati che già parlano da sé. Il primo: i bambini delle scuole elementari di oggi hanno 4,6 probabilità su 100 di incrociare sulla loro strada un maestro maschio. Il secondo: i laureati maschi in Scienze della Formazione – ex Magistero – sono costantemente calati nell’ultimo decennio fino a toccare nel 2009 quota 12 per cento (dati Almalaurea). Dodici beati tra 88 donne, e chissà quanti avranno lasciato in corsa per via del sentirsi minoranza.
Dati che hanno fatto scattare all’Università di Milano Bicocca l’allarme «questione maschile» dopo anni di «questione femminile» dominante, una sorta di segregazione (o autosegregazione) formativa al contrario, in cui a perderci non sono solo gli uomini che non vedono più nel mondo della scuola, dell’educazione e della cura un habitat per loro, ma soprattutto le nuove generazioni, che rischiano di avere una formazione tutta al femminile fino all’università.
Ne è nata una giornata di studio a cui hanno partecipato in qualificata moltitudine pedagogisti, sociologi, storici, insegnanti e operatori del mondo del sociale. Un primo brainstorming su un fenomeno di cui non sono ancora chiare le motivazioni né le conseguenze. La premessa è che la presenza maschile non è «uniformemente scarsa» in tutti i gradi dell’insegnamento. «Fra i professori ordinari in università è anzi preponderante, cala via via che i livelli educativi vanno verso la scuola primaria», rileva Carmen Leccardi, docente di sociologia.
Nella primaria, infatti, l’estinzione del maestro maschio è quasi completa (per non parlare della materna), mentre nelle medie e in alcune materie al liceo sta avanzando inesorabilmente. Con quali conseguenze, si è iniziato ora a discuterne. «Si manifesterà nella difficoltà a costruire modelli di genere soprattutto per i piccoli maschi e i giovani maschi, e in seguito nelle relazioni fra i due generi» sostiene Barbara Mapelli, docente di Pedagogia delle Differenze di genere.
Al contrario, «la presenza di figure educative di entrambi i generi in tutti i livelli di educazione scolastica e prescolastica offrirebbe a bambini e bambine la possibilità di acquisire una maggiore complessità di visione del mondo, per stili di vita, emotività, fisicità, comunicazione»: questa l’analisi di Stefania Ulivieri Stiozzi, docente di Teorie e modelli della consulenza pedagogica e organizzatrice del seminario alla Bicocca.
Ma quali sono le ragioni storiche e sociali di questo allontanamento dei maschi dall’educazione? C’è chi ha parlato quasi di un ritorno all’800, quando è nata la figura della «maestra» per consentire alla donna che non poteva o voleva essere solo madre di istruirsi e svolgere una professione lontano dagli studi e dalle posizioni elevate riservate agli uomini. C’è chi ha parlato di ritorno, anzi di persistenza del «virilismo» che ritiene antitetico alla virilità tutto ciò che ha a che fare con l’infanzia – regno dell’indeterminatezza, dell’insicurezza e della fragilità per antonomasia – , e questo in controtendenza con ciò che succede in famiglia, dove invece l’uomo non considera svilente occuparsi dei bambini.
Quali che siano le ragioni, per il professor Duccio Demetrio, ordinario di Filosofia dell’Educazione, si tratta di una «deriva inevitabile e irreversibile». Non resta che da chiedergli perché proprio lui, uno dei pochi maschi in facoltà, sia così tranchant. «La deriva è irreversibile perché si tratta di professioni che subiscono un calo progressivo di prestigio sociale. è un problema di immagine personale, prima di tutto davanti ai genitori. Ricordo la faccia di mio padre quando a 20 anni dissi che volevo fare l’alfabetizzatore di strada».
Per il professor Demetrio nonsi può far finta che non ci sia «il problema del denaro, del successo, della carriera». E conclude: «Educare, ex-ducere, vuol dire anche portare altrove, farti vedere lontano. Scontiamo una società in cui c’è una crisi del maschile intrinseca, perché gli uomini non riescono a dare mete in cui investire. Per fortuna i giovani le cercano, al di là dei padri».
La Stampa 16.03.12