Il viaggio che La Stampa ha fatto in queste settimane in Italia sul tema del lavoro ha ben raccontato delle difficoltà e delle emergenze che attraversano il nostro Paese. Ma ha narrato anche delle sue articolazioni, di realtà sociali ed economiche molto diverse. Alcune (purtroppo) storicamente segnate da problematicità, faticano a trovare percorsi di ripresa dell’occupazione. Altre stanno vivendo una fase di trasformazione economica; altre ancora nonostante tutto mostrano segni di vivacità. Lo scenario di sfondo, però, accomuna tutti: la fase che stiamo attraversando si caratterizza per un cambiamento strutturale delle nostre economie. La crisi non è di natura congiunturale: basta attendere che passi e tutto si riaggiusterà, anche sul versante del lavoro. Non è così. I mutamenti negli assetti produttivi a livello internazionale dureranno ancora a lungo, prima di trovare un nuovo equilibrio. E, nel frattempo, i sistemi produttivi, e con essi il lavoro, devono trovare nuove modalità organizzative e di relazioni industriali, nuove regolazioni del mercato del lavoro e sistemi di tutele, nuovi profili professionali e di formazione. Sarà banale sottolinearlo, ma la sensazione è che tale consapevolezza non sempre sia così diffusa.
Tant’è che le risposte alla crisi del lavoro sembrano ripercorrere le strade tradizionali. O incagliarsi, come nel caso della discussione sull’articolo 18, in contrapposizioni spesso ideologiche e di bandiera, disancorate dalla realtà. Tornare a creare le condizioni affinché aumenti l’occupazione, affinché il lavoro riassuma una veste di continuità e stabilità per le persone, significa rigenerare e ridistribuire ricchezza. E offrire prospettive di futuro, soprattutto per le giovani generazioni.
Ma, com’è noto, il lavoro non si crea per decreto. La discussione attorno alla ridefinizione del sistema di welfare e di tutele, la riforma non procrastinabile degli ammortizzatori sociali (anche se in modo miope si cerca di rinviarla), sono necessari per dare una maggiore fluidità, ma anche per ricercare tutele diverse, al mercato del lavoro. Tuttavia, nello stesso tempo vanno avviate politiche industriali e iniziative a favore delle imprese: perché solo una ripresa del sistema produttivo può generare nuova occupazione. Altre strade non sono date. Le ricette non sono semplici e universalmente valide, come la crisi insegna. Ciò non di meno, è utile porre attenzione a quelle realtà imprenditoriali che oggi – nonostante la crisi – riescono a offrire performance positive sotto il profilo economico e occupazionale per individuare le corde utili da toccare per sostenere lo sviluppo.
In primo luogo, favorire gli investimenti delle imprese nell’innovazione variamente intesa. Come dimostrano le ricerche, sono le realtà produttive che hanno avviato investimenti per innovare la propria organizzazione e produzione, già nella fase precedente alla crisi, a offrire risultati positivi. Di più, a mantenere e a incrementare ulteriormente gli investimenti in questi anni. Tre le direzioni principali perseguite con queste innovazioni. La prima è nei confronti del proprio capitale umano: investimenti in formazione dei propri lavoratori e dei propri fornitori è una prima leva. Perché non va dimenticato che la vera arma competitiva delle Pmi è la flessibilità, la capacità di fare prodotti che rispondano alle variegate esigenze dei clienti. E tale flessibilità, si può avere solo con un capitale umano fortemente professionalizzato.
La seconda direzione è di una maggiore ricerca nei prodotti, nella qualità, nel design, nel brand: nella parte «immateriale» del prodotto, ma che oggi ne costituisce una dimensione essenziale. La terza direzione è andata nella ricerca di nuovi mercati, soprattutto nei Paesi esteri, dove la crescita economica è più rilevante. La seconda corda da toccare, è proprio quella dell’internazionalizzazione delle imprese. Sono quelle che si sono aperte ai mercati esteri a conoscere performance positive sotto tutti i profili. E che per seguire questa strada si sono dovute strutturare maggiormente, crescendo di dimensione o trovando forme di aggregazione che le potessero aiutare in questa proiezione internazionale. Di più, processi di innovazione e di internazionalizzazione vanno a braccetto.
Quanto più un’impresa si sposta sui mercati esteri, tanto più innova. E facendo ciò crea occupazione. E genera un’occupazione buona, nel senso che alimenta lo sviluppo di profili professionali più elevati. Una politica industriale in grado di creare le condizioni affinché le imprese possano seguire queste strade, porterebbe ad almeno tre effetti positivi: 1) meritocratico: perché premierebbe il merito di quelle imprese che, nonostante le condizioni avverse, hanno saputo individuare percorsi di crescita; 2) imitativo: perché spingerebbe almeno una parte del sistema produttivo a perseguire anch’esso percorsi analoghi; 3) lavorativo: perché alimenterebbe un circuito virtuoso fatto di sviluppo imprenditoriale e creazione di occupazione. Soprattutto, generativo di buona occupazione.
La Stampa 12.03.12