cultura

«In volo sui tesori di Villa Adriana minacciati da una discarica», di Sergio Rizzo e Gian Antonio Stella

Lo stoccaggio dei rifiuti previsto a 800 metri dal sito

Non bastasse il pattume cementizio che l’assedia, Villa Adriana sarà investita dal puzzo fetido di una discarica? Guai a voi, ha mandato a dire l’Unesco. Paventando addirittura la revoca del prezioso sigillo di «patrimonio mondiale dell’umanità».
Ma come hanno avuto un’idea così scellerata? Questo ti chiedi, dall’alto di un piccolo aereo ultraleggero che sbanda nel vento, vedendo i pochi metri che separano la discarica dalla dimora dell’imperatore Adriano. «Ottocento metri o anche meno — accusa il professor Cairoli Fulvio Giuliani, che è ordinario di Topografia antica e proprio a Tivoli vive —. Non conosciamo neppure i perimetri esatti della villa».
Poche centinaia di metri sottovento. Avete presente il Ponentino, quel «venterello» cantato tra gli altri da Cesare Pascarella, che porta «quer freschetto fino fino»? Adriano la volle lì, la sua villa, proprio perché anche nelle più afose canicole estive arrivava dal mare quel refolo rinfrescante. Bene: se la fanno (Dio ci scampi), la discarica sarà proprio lì, sul tragitto della brezza. La quale, dopo un paio di millenni di fragranze di pini marittimi e fiori e rosmarino che segnavano l’agro romano cantato dai viaggiatori del Gran Tour, porterà tra le Grandi Terme e i Portici, il Teatro Marittimo e il Ninfeo, folate di fetore. Col risultato, potete scommetterci, di ridurre ancor più le presenze dei visitatori paganti. Erano 187 mila l’anno, nel 2000: sono precipitati nel 2010, con un crollo del 42%, a 108 mila. Un ventesimo di quelli che ogni anno visitano Efeso, in Turchia.
Uno spreco pazzesco, per quella che è considerata una delle meraviglie archeologiche mondiali. Sottoposta per secoli ad un tale saccheggio che un po’ tutti i grandi musei del pianeta sono pieni di statue e mosaici e reperti rubati lì, a Villa Adriana. Stuprata prima da nobili e cardinali ingordi di marmi e sculture, poi da un’assatanata espansione edilizia che ha ridotto la bucolica campagna attraversata dalla via Tiburtina a un informe impasto di cave e capannoni, villette e condomini, sottopassi e sovrappassi, baracche e ipermercati.
Un orrore. Solcato a passo d’uomo da un traffico infernale che ingombra in un caos di clacson l’antica via consolare. Un’ora e un quarto ci vuole, se va bene, in treno o in autobus per fare poco più di 25 chilometri in linea d’aria dal Colosseo. Più la fatica di orientarsi fra indicazioni stradali che se ne fottono di informare. Tutti ostacoli che, indegni di un paese turistico, impongono ai turisti un certo spirito d’adattamento. Se non proprio d’avventura.
E’ proprio lì, a Corcolle, ai confini tra il Comune di Roma e quello di Tivoli, che l’esondazione cementizia tracimata dalla capitale pare finalmente fermarsi. È lì che ancora ritrovi, miracolosamente, quella campagna che scavalla su per i colli verso i Monti Tiburtini. La campagna descritta in estasi ad esempio da Charles Coleman, «il bardo errante dell’Agro». Le pecore al pascolo. La fattoria «Ena» dove ancora fanno le caciotte profumate come secoli fa. Il laghetto. L’antica Porta ricolma di vegetazione. I resti dei quattro acquedotti che portavano nella città dei cesari le acque appenniniche. Castelli e castelletti. Come quello duecentesco che domina la grande cava che dovrebbe accogliere la discarica.
Come potrebbero quelli dell’Unesco non preoccuparsi? Messi al corrente del rischio, vogliono vederci chiaro. Lo ha scritto a Carlo Ripa di Meana la signora Petya Totcharova, capo area del World Heritage center: «Riguardo il progetto di discarica nei pressi di questo Patrimonio dell’Umanità, si fa presente che è stata già espressa preoccupazione allo Stato membro e si è in attesa di una relazione». Ne discuteranno a San Pietroburgo il 24 giugno. Auguri. Una revoca del prezioso «bollino Unesco», Dio non voglia, è possibile. E sarebbe, per la nostra immagine mondiale, un disastro. E la riprova che non basta possedere un tesoro come questa villa e accogliere i visitatori con la statua della scrittrice Marguerite Yourcenair, che qui scrisse «Memorie di Adriano»: ci vuole cura, decoro, amore. Sentimenti che non possono fermarsi, come mille volte ha scritto Salvatore Settis, «un millimetro più in là del perimetro dei siti archeologici, oltre il quale può esserci l’inferno».
Ma se anche non ci fosse la Villa, dicono gli oppositori, ci sono aspetti che sconsiglierebbero comunque una discarica qui. E l’hanno scritto in una memoria alla base del ricorso al Tar e di una denuncia penale da cui è nata un’inchiesta. Memoria che contesta il rapporto dei tecnici che il prefetto di Roma Giuseppe Pecoraro, nominato mesi fa commissario ai rifiuti, aveva incaricato di esaminare i pro e i contro di sette possibili siti individuati dalla Regione dopo che era apparso chiaro che la storica discarica di Malagrotta, dopo avere accolto 36 milioni di tonnellate di spazzatura e dopo una litania di rinvii, sarebbe stata stavolta davvero chiusa.
Ricordano dunque gli abitanti del posto che a pochi metri dalla zona individuata per lo sversamento dei rifiuti passa la condotta che porta l’acqua potabile a tutta la zona est di Roma. Di più, i tecnici incaricati di alcuni accertamenti (tecnici elogiati per «il buon lavoro» dalla governatrice Renata Polverini in un dispaccio Ansa del novembre scorso) non si sarebbero accorti, stando ai rilievi, che l’area scelta confina con un fiumiciattolo che i vecchi del posto ricordano per rare ma devastanti piene torrentizie. Per non parlare delle falde acquifere che buttano, in un’area altamente permeabile, appena pochi metri sotto la superficie: «Che succederebbe dell’acqua potabile di Roma se venisse contaminata dai liquami?»
Tutte cose che dovrebbero pesare. Se non ci fosse una misteriosa volontà di portare avanti il progetto a tutti i costi. Volontà tradita da un dettaglio che dice tutto. Sapete come viene definito nella relazione degli esperti prefettizi il maniero medievale che domina svetta sulla discarica? «Manufatto edilizio denominato Castello di Corcolle». Sic… Una definizione così furbetta da mettere in allarme il ministero dei Beni culturali: parere negativo.
Per capire cosa è successo bisogna partire da qui. Dal Castello del XII secolo riadattato in villa settecentesca al centro di un’azienda agricola con agriturismo. Il suo proprietario si chiama Giuseppe Piccioni ed è anche il socio al 50% della «Ecologia Corcolle», che si era candidata a gestire la discarica. Uno che vuol prendersi i rifiuti di Roma sotto casa non può essere che matto, penserete. Ma è ancora più curioso il seguito: dopo aver fatto la società per gestire i rifiuti nel suo giardino, ha fatto ricorso al Tar contro l’immondezzaio.
Come mai? Gli atti della commissione d’inchiesta sulle ecomafie presieduta dal pidiellino Gaetano Pecorella sono illuminanti. Tutto comincia quando iniziano a circolare le voci che a Corcolle si farà una discarica. Alla commissione Piccioni spiega di essersi spaventato, ma di aver poi realizzato che essendo la cosa inevitabile, tanto valeva gestirla. Di qui l’idea di una società, la Ecologia Corcolle, fifty-fifty con i due figli di Claudio Botticelli, un signore che già gestisce una discarica a Lanuvio e che per i rifiuti ha avuto qualche grana giudiziaria. Dice anzi che fu Botticelli a proporgli l’affare. Quando però il presidente della Commissione gli chiede di spiegare perché ha fatto ricorso al Tar, si impappina.
Dice che è sempre stato convinto che si dovesse trattare di una discarica di materiali inerti e non pericolosi… Pecorella gli fa notare l’«oggetto sociale della società». Dov’è previsto il trattamento di «rifiuti solidi urbani di qualunque oggetto considerato rifiuto, sia classificato speciale non pericoloso, sia speciale e pericoloso, compresi i rifiuti ospedalieri». «Lei capisce che siamo un po’ perplessi… », incalza la commissione. E Piccioni: «Non pensavo fosse una cosa così grande… Io non volevo questa discarica… Mia moglie non vuole venire più in campagna, a causa di questa discarica!»
Il resto, le contraddizioni, le ambiguità, le società dai profili oscuri con sede nei Grigioni, le strane alleanze e gli scontri politici, il ruolo sullo sfondo di Manlio Cerroni, l’anziano «Re della monnezza» padrone di Malagrotta e deciso a quanto pare a non uscire dal giro della spazzatura (dal quale avrebbe ricavato somme enormi) ve lo risparmiamo. La sintesi di tutto è nella risposta che Vespasiano avrebbe dato a chi gli rinfacciava di aver messo una tassa sulle latrine gestite dai privati: «Pecunia non olet». Il denaro non puzza.
Tranne, si capisce, per quelli che, se dovesse passare la discarica di Corcolle (della quale proprio oggi si occuperà il ministro dell’ambiente Corrado Clini) si sentiranno soffiare addosso il fetore portato da un Ponentino non più amico…

dal Corriere della Sera 12.3.12

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«Fra liti, sprechi e degrado Ravello lascia morire l’Auditorium di Niemeyer», di Giovanni Valentini
Dall’inaugurazione, due anni fa, è praticamente chiuso

QUESTA è una storia – al limite dell’inverosimile – di straordinario malcostume meridionale. Di sprechi finanziari a carico dell’Unione europea. Di degrado culturale e ambientale, a danno di una comunità locale e dell’intera economia nazionale. Un paradigma, insomma, di quell’Italia dissoluta che – in particolare al Sud – non funziona e fa di tutto per non funzionare. Parliamo dell’Auditorium di Ravello, la “perla” della Costiera amalfitana, città della musica e sede di un Festival internazionale che d’estate richiama turisti e appassionati da tutto il mondo. Un’opera architettonica spettacolare, realizzata su progetto del celebre architetto brasiliano Oscar Niemeyer che volle donarlo al Comune, in virtù dell’amicizia personale con il sociologo Domenico De Masi, da lui stesso delegato a supervisionare e controllare il complesso come tutore morale del suo “stato di manutenzione e di estetica”. Destinato nelle intenzioni a prolungare la stagione musicale e turistica oltre i mesi estivi; inaugurato ufficialmente il 29 gennaio 2010, con un concerto dell’orchestra e del coro del Teatro San Carlo di Napoli, da allora però l’Auditorium è rimasto praticamente chiuso. Ormai è ridotto a ospitare sporadicamente concerti bandistici, spettacoli di modesta qualità e nel fine settimana addirittura un cinematografo. Il suo stato di abbandono e degrado è visibile anche dall’esterno. E per sovrappiù, intorno all’opera infuria adesso una nuova faida: la Fondazione presieduta dall’ex ministro Renato Brunetta, che qui ha una casa di vacanze e qui s’è sposato nel luglio scorso, pretenderebbe di acquisire la strutturaa titolo gratuito – e quindi illegalmente – dal Comune di Ravello che ne ha la proprietà e per legge non può alienarla. La costruzione dell’Auditorium, finanziata dalla Regione Campania con fondi europei pari a 18,5 milioni di euro. I lavori cominciarono con sei anni di ritardo, in seguito a una serie di ricorsi al Tar – orchestrati dall’opposizione politica locale – che spaccarono perfino il fronte ambientalista: a favore Legambiente, Wwf, Fai e Verdi; contro Italia Nostra. Superati tutti gli intoppi giuridici e burocratici, finalmente i lavori iniziarono nell’ottobre 2006 per terminarea tempo di record, dopo circa tre anni.
Nel 2002, anche per gestire l’intero complesso architettonico e gli eventi culturali, la Regione, la Provincia, il Comune e il Monte dei Paschi di Siena costituirono la Fondazione, sotto la presidenza del professor De Masi. E fu proprio questa, in attesa di aprire le porte dell’Auditorium, a rilanciare il Festival estivo a livello internazionale, a vigilare sulla realizzazione del progetto, a creare una Scuola di management culturale per preparare un gruppo di giovani neolaureati: gli allievi, arrivati da tutta la Campania e anche dall’estero, sono stati più di cento.
Ma, come spesso avviene in Italia, purtroppo la politica – o meglio, la bassa politica – s’è messa di mezzo. La Regione e la Provincia sono passate da un governo di sinistra (Bassolino a Napoli e Andria a Salerno) a uno di destra (rispettivamente, Caldoro e Cirielli). A Ravello, nel 2006 l’ex opposizione conquistò la maggioranza trovandosi così a gestire proprio quel capolavoro che aveva sempre osteggiato. E contemporaneamente, nel segno del peggiore trasformismo meridionale, l’ex sindaco Secondo Amalfitano – già leader locale della Margherita e aderente al Pd – s’è trasferito armi e bagagli nel Pdl, sotto l’ala protettrice di Brunetta che l’ha ricambiato generosamente con la nomina a presidente del Formez.
Di fronte a un tale terremoto, e al tentativo palese di politicizzare la Fondazione, il 6 maggio 2010 De Masi comunicava perciò ai Soci l’intenzione di lasciare la presidenza. E il 19 luglio di quello stesso anno, anche il Monte dei Paschi di Siena usciva dalla Fondazione Ravello. Poi la Regione e la Provincia, con l’astensione del Comune, hanno conferito la presidenza a Brunetta che di fatto la esercita attraverso il suo “factotum” Amalfitano, il quale gode anche di un secondo stipendio in qualità di dipendente della Fondazione medesima. Con la delega “morale” di Niemeyer in mano, De Masi ha provato più voltea denunciare al Comune lo stato di abbandono dell’Auditorium che nel frattempo si sta progressivamente degradando per scarsa manutenzione. E lui stesso aggiunge: «Ho chiesto almeno che facesse rispettare i divieti di sosta, punendo i parcheggiatori abusivi che scempiano con le loro auto la bellezza del capolavoro. Non ho mai ottenuto nulla. Ora penso di creare un comitato internazionale di grandi intellettuali e architetti, che rafforzino con il loro prestigio le mie proteste».
L’Auditorium di Ravello, come occupazione diretta, potrebbe offrire un lavoro stabile a una quindicina di persone. Ma ipotizzando l’arrivo di 500 turisti a settimana per concerti e convegni, con una spesa di circa 250 euro a testa, si può calcolare che agli introiti del Festival estivo si aggiungerebbero almeno quattro milioni di euro all’anno. Con buona pace di un ex collega dell’ex ministro Brunetta, dunque, a volte anche la cultura si mangia.

da Repubblica 12.3.12

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