«Trovo abbastanza inutile e anche un po’ stucchevole i dibattito sul governo,con addirittura il tentativo di dividere il Pd tra chi vuole sostenere convintamente Monti e Ichino». E per argomentare il suo giudizio Dario Franceschini parte da una«semplice considerazione»: «Il governo Monti noi lo abbiamo voluto, è la destra che lo ha subìto». Per il capogruppo del Pd alla Camera va quindi sgombrato il campo da discussioni sterili, mentre va utilizzato il tempo che separa dalle prossime elezioni per «far capire che tipo di Italia vogliamo costruire noi». Avendo in particolare un obiettivo: «Recuperare a sinistra».
Partiamo dal governo Monti: si discute sul tasso di convinzione con cui il Pd lo sostiene…
«Discussione inutile e stucchevole. Il nostro sostegno deve essere convinto perché sta lavorando sulla base della missione che gli è stata affidata, che è quella di affrontare l’emergenza del Paese».
A prescindere da come realizzi questa missione?
«Sapevamo dall’inizio che essendo sostenuto da una maggioranza composta da avversari politici, che torneranno ad affrontarsi alle prossime elezioni, ogni scelta del governo sarebbe stata necessariamente frutto di mediazioni. Alcune misure potranno soddisfarci di più, altre di meno, ma non mancherà mai il nostro sostegno».
Alfano ha fatto saltare il vertice Monti-leader perché si sarebbe parlato anche di Rai e legge anticorruzione: è pensabile che il governo non affronti simili temi?
«Non si può sostenere che il governo si debba occupare solo di economia e il Parlamento delle altre questioni, è una divisione forzosa. Anche perché ogni provvedimento che il governo adotta deve avere il consenso del Parlamento. C’è una vocazione principale riguardante i temi finanziari ed economici, ma è difficile togliere il resto delle questioni dal tavolo. Anche perché tutti gli studi dimostrano che una delle condizioni dell’Italia per uscire dal la crisi è la lotta alla corruzione, che pesa quasi quanto l’evasione, che il malfunzionamento della giustizia ha un peso economico che ricade sulle imprese e sulla credibilità del Paese. Non si può tagliare con l’accetta. Nell’azione del governo deve esserci tutto, anche i temi che possono essere più spinosi».
Il PD passerà il prossimo anno a spiegare come dovrebbero essere le misure adottate da Monti?
«Non dovrebbe, sarebbe limitante caratterizzarci fino alle prossime elezioni soltanto per le nostre posizioni sui provvedimenti del governo. Questo anno deve essere utilizzato in un altro modo. Accanto al piano del nostro sostegno convinto all’esecutivo ce ne deve essere un altro. Dobbiamo portare avanti un lavoro parallelo per trasmettere agli italiani l’idea di Paese che abbiamo in mente per il futuro, far emergere le differenze rispetto alla destra, far capire che tipo di Italia vogliamo costruire noi con una coalizione costruita attorno al PD per vincere le elezioni e governare seguendo una precisa agenda».
Si direbbe che per lei nel 2013 non dovrebbe esserci né una grande coalizione né un Monti bis a capo di uno schieramento politico.
«È così infatti. Il governo è nato per affrontare l’emergenza e ha un termine, che sono le prossime elezioni. Tutti conosciamo bene le qualità di Monti ma è inutile tirarlo per la giacca. Dopo aver guidato un esecutivo di larghe intese, dopo aver governato con il sostegno di due partiti alternativi, non potrà guidare una delle due parti. Nel 2013 si torna alla fisiologia democratica, progressisti contro conservatori, sinistra contro destra».
Parla di sinistra? Ma il PD non vuole aprire ai moderati?
«Ma proprio perché abbiamo in mente un’alleanza tra progressisti e moderati non dobbiamo limitarci al nostro campo tradizionale».
Cosa intende dire?
«Nella prossima legislatura andranno realizzate riforme profonde e questo non si potrà fare, sia per ragioni elettorali che per ragioni più sostanziali, con un campo limitato numericamente e socialmente. Servirà un’alleanza aperta a pezzi di centro. Ma questo non è in alternativa e anzi è complementare alla necessità di non lasciare incustodita o nelle mani di altri una vera e propria prateria alla nostra sinistra. Dai sondaggi risulta che Sel e Idv insieme arrivano al 15%. Se si aggiungono altre sigle, il fenomeno Grillo e l’astensionismo per scelta si arriva attorno al 20-25%. Non ha senso immaginare che un grande partito progressista possa avere alla sua sinistra uno spazio così grande».
Dice che il PD può parlare a quegli elettori?
«Dico che il PD deve parlare a quegli elettori. Conosco tutto il peso che in Italia deriva da un’eredità della storia. Ma non si può immaginare che un grande partito come il nostro, partendo dai valori dell’uguaglianza e della giustizia sociale, non cerchi di occupare uno spazio a sinistra e portare una parte di quegli elettori che sono su posizioni di pura protesta, di conservazione, sulle posizioni di una sinistra moderna, di governo».
Parlare a quell’elettorato, dice, e però il PD non ha partecipato alla manifestazione della Fiom…
«Primo, quella manifestazione era contro il governo che noi abbiamo voluto e sosteniamo. Secondo, una sinistra moderna è quella che non ha paura delle sfide del cambiamento. In Italia c’è un pezzo di sinistra che è contro ogni innovazione, che ha paura della Tav, di una riforma del mercato del lavoro. Sta a noi recuperare a sinistra, tenendo fermi i valori dell’uguaglianza, della giustizia sociale e affrontando le sfide della modernità».
I partiti stanno discutendo un modello elettorale proporzionale che, dice tra gli altri Bindi, può portare a un sistema “multipolare”. Timori fondati?
«Dobbiamo chiarirci le idee: non si può essere contemporaneamente contro la vocazione maggioritaria, contro l’alleanza con l’Udc e contro la foto di Vasto, perché altrimenti non ci presentiamo alle elezioni. L’Italia deve restare bipolare, su questo siamo tutti d’accordo. E il bipolarismo è garantito, indipendentemente dalla legge elettorale, dall’alternatività tra PD e PdL. Siccome né il PD né il PdL sono autosufficienti, attorno a loro si costruiranno delle alleanze. Però serve una legge elettorale che non obblighi ad alleanze forzose, eterogenee. Ci si deve poter alleare sulla base di una condivisione programmatica, non per prendere un voto in più. Il sistema proporzionale non significa la fine del bipolarismo ma l’uscita dallo schema delle alleanze coatte che abbiamo visto quanti danni ha provocato negli ultimi anni sia nel nostro campo che in quello avverso».
Per il vostro campo sarà Bersani il candidato premier?
«Se si va verso un sistema più proporzionale, nel quale scompaiono le coalizioni, è naturale che ogni partito candidi il proprio leader».
E se invece prevalesse ancora il modello basato sulle alleanze?
«È altrettanto logico che il partito più grande esprima la premiership. Ci possono essere delle eccezioni, ma la norma resta questa».
Sabato Bersani firmerà a Parigi insieme a Hollande e Gabriel una piattaforma programmatica comune: lei è tra quanti temono che passando per l’Europa si punti a fare del PD un partito socialdemocratico?
«Guardi, il nodo in Europa è già stato chiarito con la nascita del gruppo dei Socialisti e dei Democratici. È stato detto che non basta il campo socialista, che ci vuole un campo più ampio, progressista, con i socialisti dentro. L’iniziativa di Bersani va in questa direzione. E dirò di più, ad aprile faremo un seminario con molti dei gruppi parlamentari progressisti europei e di altre parti del mondo. Lì si capirà con chiarezza che se si esce dalla paura per le sigle stiamo tutti, socialisti e non socialisti, nello stesso fronte».
da L’Unità
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