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"Il ricatto sulla Rai", di Giovanni Valentini

Questa volta non si tratta solo di poltrone. Di lottizzazione o spartizione della Rai. La “questione televisiva”, imperniata su funzione e ruolo del servizio pubblico, assurge al rango di questione nazionale. Questione al pari della riforma delle pensioni o di quella del lavoro. Perché costituisce l´habitat naturale della politica. E perché comprende e riassume sul piano mediatico quel progetto per il Paese al cui interno s´inscrivono lo spread, la crisi economica, le prospettive e le speranze di crescita. Una grande questione di democrazia, dunque, che rappresenta un passaggio decisivo per la vita pubblica italiana e anche per il “governo di impegno nazionale” guidato da Mario Monti.
Sono passati esattamente due mesi da quando, l´8 gennaio scorso, a proposito della Rai il presidente del Consiglio dichiarò in tv, durante la trasmissione “Che tempo che fa” di Fabio Fazio: “Qualche settimana e vedrete”. Ne sono trascorse ormai otto di settimane e ancora non s´è visto niente. È vero che, come spiegò lui stesso, questa non è “l´urgenza numero uno”. Ma è pur vero che mancano ormai meno di venti giorni alla scadenza del consiglio di amministrazione e l´azienda di viale Mazzini naviga a vista, per non dire al buio o – secondo molti – va addirittura alla deriva.
Non sarà quindi la “numero uno”, ma è comunque un´urgenza istituzionale che il governo in carica è chiamato ad affrontare all´insegna della discontinuità, per affrancare il servizio pubblico dalla subalternità alla politica e restituirgli un minimo di efficienza, autonomia e rispettabilità. C´era da aspettarsi che, prima o poi, i nodi della televisione e della giustizia sarebbero arrivati al pettine. E c´era da aspettarsi, soprattutto, che il conflitto di interessi in capo a Silvio Berlusconi sarebbe riemerso alla prima occasione dalle ceneri ancora fumanti delle rovine e delle macerie prodotte dal centrodestra.
Ora però il governo Monti deve andare avanti, senza indugi o tentennamenti, sulla strada del ricambio al vertice della Rai e del suo rinnovamento. Non è più il caso di “prorogatio”. Non si può accantonare o congelare il problema, come finora s´è fatto sulle frequenze televisive, in nome del quieto vivere o sopravvivere. Né si possono accettare o concordare “voti di scambio”, dentro o fuori il Parlamento, tra le due partite contabili del bilancio televisivo. Ne risulterebbero compromesse l´autorità e la credibilità dell´esecutivo istituzionale.
Nelle settimane scorse, abbiamo passato in rassegna su questo giornale tutte le alternative possibili. Da quella ottimale di una riforma organica per modificare la “governance” dell´azienda a quella giuridica del commissariamento: la prima realisticamente impraticabile, in base agli attuali rapporti di forza parlamentari; il secondo non perseguibile a norma del codice civile, almeno per il momento, perché quest´anno il bilancio della Rai chiude formalmente in pareggio. Abbiamo anche provato a lanciare l´ipotesi di affidare la nomina dei nuovi consiglieri ai presidenti delle due Camere, d´intesa magari con il Capo dello Stato. Ma evidentemente manca la volontà politica – o forse, bisognerebbe dire la decenza – per procedere in una direzione del genere.
Tuttavia, come pure qui abbiamo scritto, il governo Monti ha il pieno diritto di applicare la famigerata legge Gasparri, tuttora in vigore, per adottare scelte tecniche e rinnovare la “governance” della Rai, nel rispetto della professionalità, dell´autonomia e della concorrenza: nominando un nuovo rappresentante del ministero del Tesoro, in funzione di ago della bilancia; designando un nuovo presidente che dev´essere poi eletto dalla Commissione di Vigilanza con la maggioranza qualificata dei due terzi; e infine indicando il nome di un nuovo direttore generale. Sarebbe un grimaldello per scardinare il sistema di controllo del servizio pubblico e un boomerang per i suoi artefici.
Quanto alle “linee-guida” per la scelta dei consiglieri di amministrazione, sarebbero più che sufficienti i requisiti indicati nella medesima legge: e cioè quelli per essere eletti giudici costituzionali, “o comunque – come si legge testualmente – persone di riconosciuto prestigio e competenza professionale e di notoria indipendenza di comportamenti, che si siano distinte in attività economiche, scientifiche, giuridiche, della cultura umanistica o della comunicazione sociale, maturandovi significative esperienze manageriali”. Magari il sinedrio di viale Mazzini corrispondesse alla metà di tali criteri.
Non c´è dunque “ragion di Stato” che tenga di fronte a questa urgenza. Dopo la rottura con la Lega e le tensioni al proprio interno, oggi il Pdl rischia l´isolamento o addirittura una diaspora. La minaccia di mettere in crisi il governo Monti, sulla Rai o sulle frequenze televisive, è un bluff fin troppo scoperto: sarebbe un karakiri collettivo, il suicidio di una setta ancora ipnotizzata dal suo capo-santone.

La Repubblica 09.03.12