Il premier Monti (e noi italiani con lui) deve preoccuparsi di un imprevisto pericolo: il rischio che una delegittimazione della sua leadership arrivi proprio da quei leader, quegli ambienti, quell’Europa che finora lo hanno lodato, sostenuto, celebrato. L’Italia che sta faticosamente risalendo il pozzo della mancanza di credibilità in materie economiche, viene lasciata amaramente sola, proprio dall’Europa, in due gravissime crisi internazionali in cui si ritrovata intrappolata.
Ieri l’italiano Franco Lamolinara e il britannico Christopher McManus, ostaggi sequestrati il 12 maggio 2011 a Birkin Kebin, in Nigeria, sono stai uccisi nel corso di un blitz delle teste di cuoio inglesi per liberarli. Mario Monti non era stato informato di questa operazione militare, né dai servizi segreti inglesi, ma nemmeno dal suo grande amico, in altri momenti sempre generoso di apprezzamenti nei suoi confronti, il premier Cameron. Palazzo Chigi non ha nascosto di essere stato aggirato, e nel comunicato ufficiale scrive che l’operazione per liberare i prigionieri «è stata avviata autonomamente dalle autorità nigeriane con il sostegno britannico, informandone le autorità italiane solo ad operazione avviata».
Potremmo archiviare (e comunque non dobbiamo farlo) il caso come un incidente di percorso se questa mancanza di «rispetto» da parte delle autorità inglesi non avvenisse contemporaneamente a un altro grande «affronto» che ci viene dall’Europa. Su certe questione val la pena di parlar chiaro, ed è abbastanza ovvio che l’Europa non ci sta dando un grande aiuto nella serissima questione dei due marò prigionieri in India. E’ dal 16 febbraio che l’Italia prova a disincagliarsi da uno scontro con l’India sul destino di due nostri fucilieri arrestati in quanto sospettati di aver ucciso due pescatori. Il nostro Paese ha provato in ogni modo a disinnescare la mina, prima di rivolgersi all’Europa. E quando lo ha fatto si è sentito rispondere da Catherine Ashton, commissario Ue per gli Affari esteri che «il problema è di competenza esclusivamente italiano». Nelle ultime ore si sono moltiplicati gli appelli e i malumori dei rappresentanti italiani a Bruxelles e solo con una certa condiscendenza ci è stato assicurato che «l’Europa si impegnerà».
Solo l’ignoranza di quello che è in gioco nell’Oceano Indiano ci può permettere di non capire quanto grave sia la situazione avviatasi con le accuse ai due fucilieri. La storia dei pirati, che dal nome appare una sorta di gioco fra il militare e il letterario, con tutte le sue evocazioni salgariane, è in effetti la nuova frontiera di una guerra non dichiarata che va avanti, da un decennio almeno, fra le due maggiori potenze del mondo attuale: la Cina e gli Usa.
Il controllo della sicurezza dell’Oceano Indiano è il «great game» dei nostri tempi, in cui le rotte commerciali che vanno verso l’Estremo Oriente sono la nuova «Via della Seta». In questo senso, l’intervento sulla pirateria in quel mare è una guerra indiretta fra Usa, Cina (e noi europei fra gli altri) per assicurarsi il controllo dell’espansione dell’Estremo Oriente. Che ci siano pirati è fuori discussione. Chi siano e a cosa servano, è tutto da vedere. Un solo esempio basta per illustrare di cosa stiamo parlando. Nelle Isole Seychelles (si proprio quelle delle vacanze esotiche) alla fine di dicembre 2011, i cinesi sono riusciti ad ottenere una base a supporto delle unità navali di Pechino impegnate nella lotta alla pirateria nell’Oceano Indiano. La cosa ha preoccupato l’India e gli Usa. L’India si sente «circondata» da Pechino nell’Oceano Indiano e gli Usa hanno dovuto prendere atto dell’ennesima «spartizione» di spazi con la Cina, visto che gli Stati Uniti alle Seychelles dispongono di un aeroporto agli ordini dell’Us Africa Command (Africom), dotato di droni – anche armati – per il controllo delle coste orientali del Corno d’Africa e per colpire le milizie fondamentaliste somale. Va aggiunto che la Cina ha altre basi nell’area, a Gibuti, in Oman e nello Yemen. Inoltre, Pechino ha costruito e sta ampliando nell’Oceano Indiano e dintorni altre sue postazione, a Sittwe in Myanmar, a Chittagong in Bangladesh e a Hambantota nello Sri Lanka.
In questo quadro è evidente che i nostri marò sulle navi non sono esattamente lì solo per una difesa delle navi. Sono parte di una iniziativa internazionale. Il cosiddetto accordo sui Vessel Protection Detachement è nei fatti una nuova frontiera di guerra non dichiarata.
Che l’Europa faccia finta che la questione sia solo italiana è ridicolo e offensivo. E anche se le questioni di politica estera nel nostro Paese sono sempre sottovalutate, questo è esattamente il caso di prestare il massimo di attenzione. Il rischio è quello di esser presi in giro. Lodati quando siamo virtuosi sul nostro debito e soli se abbiamo degli incidenti. Presidente Monti si faccia sentire.
La Stampa 09.03.12