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«Uomini unitevi a noi. È una battaglia di civiltà», intervista a Cristina Comencini di Mariagrazia Gerina

«Dopo Se non ora quando anche il senso di questa giornata è cambiato. Nel mio spettacolo “Libere” due generazioni ritrovano la forza di ribellarsi». Omaggio alle donne italiane e a quello che devono affrontare ogni giorno, Libere, il dialogo militante scritto da Cristina Comencini – interpretato da Isabella Ragonese e Lunetta Savino -, dopo aver fatto il giro dell’Italia con la formula «ingresso gratuito, dibattito obbligatorio» approda oggi, in occasione dell’8 marzo, al Quirinale, portandosi dietro una ventata delle speranze e delle attese che hanno percorso Se non ora quando. «Un effetto lo abbiamo ottenuto: non si fa che parlare di donne, ormai. Persino Bankitalia quest’anno ha dedicato all’8 marzo una tavola rotonda», suggerisce da regista di Libere e da madrina di quella piazza, Cristina Comencini: «Noi però vorremmo che oltre a parlare di noi, questo Paese facesse qualcosa…».
Cosa dovrebbe fare per le donne?
«Lavoro, si comincia da lì. Siamo agli ultimi posti in Europa per tasso di occupazione femminile. E poi welfare. Perché se chiedi alle donne di lavorare di più e per più tempo allora devi anche pensare che per i bambini, che sono sia del padre che della madre ed è importante ripeterlo, soprattutto al Sud non c’è nulla. È tutto da costruire: gli asili, il tempo pieno. Terzo: democrazia paritaria. L’anno prossimo ci saranno le elezioni. Quindi: spazio alle donne. Lo dico rubando una battuta a Linda Laura Sabbadini, che da anni cura le indagini Istat sui tempi di vita delle donne: se Lehman Brothers si fosse chiamatoLehmanSisters forse non saremmo
a questo punto».
Lo spettacolo che oggi porterai alQuirinale racconta due donne di diverse generazioni: libere. In che senso? E le donne in Italia possono davvero sentirsi libere?
«Certo, lo sono molto più di prima. Ma ti faccio rispondere dalle due donne del dialogo. La più grande appartiene alla mia generazione e ha una storia di libertà che si è costruita dentro il movimento delle donne,ma sente che di quella libertà che lei ha dentro non c’è più traccia nel mondo in cui vive. La più giovane non ha conosciuto quello stare insieme ed è scettica, ha molta rabbia. Voi ci avete educato alla libertà – dice a un certo punto -ma nel mondo in cui ci avete mandato non è cambiato nulla, avete lasciato tutto a metà. Poi però tra le due si forma un feeling, una comprensione molto forte…».
Finisce che si scambiano anche l’email… dici che l’hanno usata?
«Quello spettacolo l’ho scritto due anni fa,ma se pensi a Se non ora quando direi che, nel frattempo, le donne italiane di tutte le generazioni si sono scritte milioni di email. Il mondo delle donne si è messo in moto. Anche l’8marzo ha riacquistato una sua centralità.
Se pensi che un paio di anni fa ci domandavamo se avesse senso scambiarsi le mimose…»
A chi o a cosa dedicheresti questo 8 marzo?
«Lo dedicherei alla forza che le donne si sono riprese. Una forza di legame, di cittadinanza.Una forza che anche le giovani donne spero che possano tirare fuori».
Forti, libere. Però poi le donne continuano ad essere vittime spesso dei loro stessi uomini. È cronaca di questi
giorni,una serie terribile di femminicidi dall’inizio dell’anno.
«La violenza sulle donne è tutt’oggi un fatto planetario e se è planetario vuol dire che c’è un ’ordine simbolico fondato sul fatto sulla coppia vittima-carnefice. Per scardinarlo bisogna
parlarne tanto, ragionare sul modo in cui vengono rappresentate le
donne, perché è lì che si annida la radice della violenza.E occorre coinvolgere in questo lavoro gli uomini, dare loro quella parola che su questi argomenti fanno così fatica a prendere.
L’idea che la donna sia sempre di qualcuno, fidanzata, moglie, è terribile. E poi: si può sentire parlare ancora di delitto passionale?» Qualcuno suggerisce che strappare quell’aggettivo dal vocabolario è un bel modo di festeggiare l’8 marzo. «Sono d’accordo».
C’è un augurio in particolare che si può fare alle donne?
«Non farsi sopraffare dalle situazioni difficili che devono affrontare ogni giorno e non far spegnere la forza che hanno ritrovato nello stare insieme. La forza e la libertà di cui parlavo sono conquistabili e devono saperlo tutte le donne, soprattutto le più giovani. Dobbiamo superare una subalternità antica. Un sentimento che ci attraversa sempre e che ci fa venire paura di prendere il comando».
E agli uomini cosa si può augurare?
«Di unirsi a noi in questo percorso. Noi e loro il mondo è fatto di queste due parti: se non comunichiamo non c’è felicità per nessuno».

L’Unità 08.03.12

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“L’occupazione al femminile può spingere il Pil del 4%”, di BARBARA CORRAO

ROMA Non è più solo una questione di genere, né di legittima rivendicazione. Molto più concretamente, la disuguaglianza tra i sessi è una questione di crescita. Cioè di Pil e di ricchezza nazionale. Lo dice la Banca d’Italia, lo osservano Banca mondiale e Ocse. E fa un certo effetto salire lo scalone che porta nella sala in cui il governatore, il 31 maggio di ogni anno, tiene le sue «Considerazioni finali» ed entrare nel tempio riconosciuto della Finanza, settore difficile da penetrare per le donne, per ascoltare frasi come questa: «C’è l’urgenza di istituire e attuare meccanismi di limitazione della presenza maschile al potere, specie quando avviene attraverso meccanismi di cooptazione, soprattutto nella politica e nell’economia, come in tutte le istituzioni visti i risultati». A parlare è Linda Laura Sabbadini, direttrice del Dipartimento statistiche sociali dell’Istat. Dopo il saluto di Ignazio Visco, il suo è il terzo intervento del convegno su «Le donne e l’economia italiana», organizzato e ospitato a Palazzo Koch. La banca centrale ha messo a disposizione i suoi cervelli migliori, molti dei quali femminili, per indagare a tutto campo sul Fattore D. Lo rileva Anna Maria Tarantola, vice-direttore generale, che spiega come a palazzo Koch il «20% dei dirigenti oggi siano donne contro il 15% nel 2002. Forse ancora poche ma in rapida crescita». «Ridurre il differenziale tra uomo e donna afferma Alessandro Rosina, docente di demografia alla Cattolica di Milano porterebbe ad un aumento del Pil del 4%». L’ex ministro Mara Carfagna, in ottobre, aveva ipotizzato il 7% se l’Italia avesse centrato l’obiettivo del Trattato di Lisbona, con un tasso di occupazione femminile del 60% (Francia e Germania lo hanno già raggiunto e superato). Siamo invece fermi al 46% e, limitandosi al solo settore privato, il dato scende al 30%. Il gap tra salari femminili e maschili si aggira in media intorno al 5-8% grezzo ma sale al 13,8% includendo le caratteristiche del lavoratore. Una dato cresciuto e non diminuito negli anni.
Non è in gioco solo la quantità: «Non consola dice ancora Sabbadini sapere che l’incidenza delle donne al vertice delle banche aumenti dal 2 al 7 per cento visto che questo risultato si ottiene nell’arco di 15 anni», cioè tra il 1995 e il 2010. Di questo passo, ci vorrebbero 120 anni infatti per arrivare al sospirato fifty-fifty. E ne servirebbero una sessantina, ha stimato Roberta Zizza di Bankitalia, per raggiungere la parità nella divisione del tempo dedicato ai carichi domestici. La ragione del gap al vertice sembra risiedere nel fatto che le donne sono più prudenti degli uomini mentre nei posti di comando il rischio è determinante per il successo. Ma allora, la prudenza femminile avrebbe potuto rappresentare, conclude Sabbadini, «un fattore di contrasto della crisi finanziaria del 2008. Da qui la domanda: What if Lehman Brothers had been Lehman Sisters?». Ovvero, cosa sarebbe successo se i Fratelli Lehman fossero stati le Sorelle Lehman?
Domanda impegnativa. E d’altra parte, proprio la crisi ha aggravato la posizione delle donne (e dei giovani) in Italia, comprimendo il già basso tasso di occupazione. Cosa fare allora? Quali politiche si possono adottare per spingere la presenza femminile nell’economia? L’economista Daniela Del Boca chiede «una sinergia di azioni per accelerare i tempi: partendo dall’istruzione, si può pensare ad un incentivo alle ragazze che vogliono fare un percorso tecnico scientifico, come negli Usa. Sarebbe poi utile ripristinare la legge sulle dimissioni in bianco, rendere obbligatorio il congedo di paternità e prevedere congedi part time per redistribuire il carico familiare. O ancora spalmare l’investimento pubblico nella scuola includendo anche gli asili nido».

Il Messaggero 08.03.12

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“Ragazze antimafia”, di Carlo Lucarelli

Dalle mie parti, cioè in Romagna ma anche nel resto d’Italia -, nelle famiglie contadine più tradizionali c’erano le azdore, in dialetto, le reggitrici, perché reggevano la famiglia. A decidere era sempre l’uomo, ma le azdore che spesso avevano studiato di più, riflettuto e pensato di più erano quelle che conoscevano le storie della famiglia.
Le azdore conoscevano le tradizio-
ni e anche le leggende, i valori e lo spirito delle cose, quelle che educavano i figli e che la notte, poco prima di addormentarsi, sussurravano al marito il loro parere, in una «moral suasion», si direbbe adesso, che al mattino poi lasciava i suoi segni.
Ecco, fatte le dovute differenze, è ovvio, le famiglie mafiose non sono meno tradizionali e al loro interno il ruolo della donna, dell’azdora comunque si dica in calabrese, siciliano, campano, pugliese o in uno dei dialetti del nord in cui le mafie si sono ormai radicate non è meno importante.
Sono le donne ad educare i figli e quando si tratta di una famiglia mafiosa i valori di cui si nutre il figlio del boss, dell’affiliato o del picciotto sono quelli di Cosa Nostra, della Camorra o della ’ndrangheta. Valori difesi con determinata ostinazione, come accade alla madre di Rita Atria, che distrugge a martellate la lapide sulla tomba della figlia collaboratrice di giustizia.
E quando l’uomo, il boss, finisce dentro, impacciato dal 41bis, sono sempre più spesso le donne a prenderne il posto, a fargli da portavoce come Rosetta Cutolo col fratello Raffaele o a dirigerne in reggenza gli affari, come accade da un po’ di tempo nella ’ndrangheta.
Sono importanti le donne, anche nella mafia. La mafia lo sa e ne ha paura. Perché quando succede che le donne si ribellino, la forza e la loro capacità di scardinarli dall’interno quei valori, di rinnegarli e di combatterli, è enorme e dirompente.
Perché succede che una madre capisca all’improvviso che i figli faranno la stessa fine dei padri, assassini e ammazzati, che non potranno fare la vita degli altri ragazzi per esempio innamorarsi e sposare qualcuno che non sia di un’altra famiglia di ’ndrangheta succede che veda il figlio ricevere fino da bambino gli omaggi degli affiliati come il boss che necessariamente diventerà. E allora le donne, le madri e le sorelle, si «pentono», ma sul serio, e collaborano con la giustizia raccontando non solo i segreti e i fatti della mafia, ma anche lo spirito, gli umori e i costumi. Oppure succede che le donne, sempre le madri soprattutto, diventino loro stesse antimafia, punti di riferimento per intere generazioni, in grado di dare coraggio e forza, come la signora Felicia, la mamma di Peppino Impastato.
Non è una cosa facile. La mafia lo sa e quando capisce che sta accadendo reagisce duramente. Opprime al punto di portare al suicidio, come succede a Maria Concetta Cacciola, ammazza e scioglie nell’acido, come Lea Garofalo, due donne che si sono ribellate alla ’ndrangheta e ne hanno pagato il prezzo. Ma è proprio chi vive le cose dall’interno, nell’intimità più quotidiana che è in grado di capire quello che è sbagliato e fare a proprio modo la sua importantissima «moral suasion». Soprattutto nella mafia, se ci sarà una rivoluzione, a farla saranno proprio le donne.

L’Unità 08.03.12

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