Al ministro dello Sviluppo economico Corrado Passera – che solo pochi giorni fa, all’ennesima domanda sulle minacce di un possibile abbandono Fiat dell’Italia e sulle iniziative eventuali prese dall’esecutivo, rispondeva laconico: «Non ci sono stati ancora contatti, ma è possibile che ci siano» – ieri probabilmente saranno fischiate le orecchie. La lettura mattutina dei quotidiani sulla prima pagina del Messaggero gli riservava, infatti, un severo richiamo firmato da Romano Prodi: «È giunto il momento in cui il governo si debba assumere la responsabilità di ricercare con Fiat e sindacati una strada comune per ricostruire una presenza italiana forte e concorrenziale» nel settore dell’automobile.
AUTO A MARCIA INDIETRO
Difficilmente l’analisi dell’ex presidente del Consiglio avrebbe potuto essere più lucida e più spietata. Per la morbidezza dei toni utilizzati nell’editoriale, che a Sergio Marchionne riconosceva addirittura di aver preso «una decisione magistrale» riguardo alla fusione dell’azienda con Chrysler. Per la durezza dei numeri con cui parlava dell’attuale «effetto di senescenza che fatalmente conduce alla morte di un’impresa», ovvero il continuo calo della quota di mercato della casa torinese e la diminuzione delle auto prodotte dagli stabilimenti nazionali, «da 1.271mila
vetture nel 2001 ameno di 500mila nello scorso anno». Ed anche per la sottile ironia con cui delineava il compito che ora attende il governo: «Si tratta solo di fare, con troppi anni di ritardo, quello che tutti gli altri Paesi hanno fatto per garantire un futuro alla propria economia».
In quell’avverbio «solo» si legge tutta la condanna nei confronti dell’inerte esecutivo Berlusconi, che all’amministratore delegato del Lingotto ha lasciato decidere per anni i destini industriali del Paese, senza mai chiedergli conto delle sue scelte e delle sue promesse non mantenute. Ma si legge anche l’implicito rimprovero all’attuale governo, che ancora non ha ritenuto di inserire la vicenda Fiat tra le priorità da affrontare per riportare l’economia nazionale in acque sicure.
Così l’Italia è tuttora priva di una politica industriale in grado di preservare un settore da 160mila occupati e 40 miliardi di euro di fatturato, considerando sia la casa automobilistica torinese sia i produttori di componenti che rappresentano l’indotto. Mentre Obama – ricordava Prodi sul quotidiano romano – ha mobilitato «cospicui aiuti finanziari per salvare Detroit», la Merkel ha ottenuto di mantenere in Germania la Opel, e Zapatero grazie ai sussidi ha convinto le multinazionali a restare in Spagna.
Il nostro Paese resta in attesa che si compia la profezia degli analisti spesso ricordata da Marchionne sui sei o sette grandi gruppi automobilistici che soli sopravviveranno al mondo entro i prossimi anni. Aspetta e spera, scontando anche quella «perdita di velocità nella ricerca» che all’ex presidente della Commissione europea ieri faceva chiedere: «Negli ultimi saloni da Francoforte
a Detroit tutti hannopresentato modelli ibridi ed elettrici e hanno mostrato un ruolo dominante dell’elettronica in tutte le funzioni di controllo e sicurezza. E da noi?». Il tempo dell’Italia sta per scadere, perché se Marchionne grazie alla fusione con Chrysler ha salvato l’impresa e preservato un presidio importante dell’economia nazionale, «negli ultimi due anni questi due obiettivi sembrano allontanarsi». Adesso tocca al governo agire – concludeva Prodi -perché «le dittature impongono, ma le democrazie debbono guidare».
L’Unità 05.03.12