È un fatto privato di «quella» famiglia, di «quella» coppia. E poi solo un folle può compiere un gesto così, quattro persone uccise per un’ossessione, un’idea malata di dominio e di possesso. Chissà che patologia ha: avrebbero dovuto fermarlo prima, avrebbero dovuto curarlo prima. Eppure c’è qualcosa che non torna in un ragionamento come questo. I primi a mettere in guardia sono i numeri: le violenze degli uomini sulle donne sono un fenomeno esteso, quasi quotidiano. Diventa difficile credere che siano tutte e solo relazioni sbagliate, rapporti sfortunati, situazioni al di fuori della «normalità». Lea Melandri, scrittrice, una lunga militanza nel femminismo che l’ha portata ad approfondire le dinamiche del rapporto fra i sessi, dà un’altra lettura della tragedia di Brescia. Macché fatto privato, macché patologia: il vero nocciolo sta in una questione infinitamente più complessa e che riguarda la nostra cultura dei rapporti fra uomini e donne. «Il fatto di considerare la violenza domestica come un fatto privato ostacola quell’assunzione di responsabilità da parte degli uomini, a livello culturale e politico, che sola potrebbe farci fare uno scatto avanti, spingendoci fuori dall’emergenza». Se sgombriamo il campo dalla figura del mostro, di quel mostro, tolto di mezzo il quale ci sentiamo tutti (falsamente) più sicuri, ciò che resta è una cultura, cristallizzata nel tempo, di rapporti fra i sessi fondata su legami di subalternità dell’universo femminile nei confronti di quello maschile di cui la violenza è l’espressione estrema, più bestiale.
I soliti vecchi discorsi? Melandri è convinta di no: «Di fronte a fatti atroci come questo, la reazione degli uomini, di quasi tutti gli uomini, è prenderne subito le distanze. Io non sono così, dicono, non ho nulla da spartire con tutto ciò. Vorrei invece vedere più coraggio, vorrei che gli intellettuali di questo Paese, gli stessi uomini di cui leggo gli scritti e dei quali condivido molto spesso le idee, dicessero finalmente: tutto ciò mi riguarda. Vorrei che qualcuno alzasse la voce e dicesse: la questione del rapporto fra uomini e donne è centrale e non più rinviabile. E cominciasse a interrogarsi sull’idea di mascolinità che abbiamo costruito nei secoli, sul nostro modello di civiltà, portandone allo scoperto punti di forza e nodi critici. Noto una difficoltà, che a volte sembra quasi insormontabile, a portare il tema della violenza sulle donne dentro un vero dibattito pubblico. Il massimo a cui ho assistito è stata la denuncia che alcuni uomini fanno del sessismo, sempre praticato dagli altri s’intende».
Perché tanta fragilità maschile? Perché basta un no o un addio per dare sfogo alla violenza?
«La fragilità maschile è un tema che andrebbe indagato a fondo. Gli uomini hanno costruito nei secoli un legame di dipendenza dalle donne molto forte. Imparano a conoscere il corpo femminile da piccolissimi, quando la dipendenza da quel corpo è totale. Poi il legame si prolunga nella figura della donna vista come madre. Le tante libertà acquisite negli ultimi decenni hanno però cambiato tutto. La dipendenza degli uomini resta, quella delle donne dai loro partner è stata invece messa in crisi da una nuova idea di se stesse».
Le donne troppo spesso non denunciano.
«Spesso è difficile distinguere fra amore e violenza, c’e da parte delle donne una complicità nel profondo con questi loro uomini che alzano le mani, c’è quell’idea dell’io ti salverò che le tiene prigioniere di un clima che diventa via via più pesante e drammatico. Ci sono anche donne che hanno denunciato e sono state uccise per questo. Non credo che sia dunque la soluzione a tutti i problemi. I centri antiviolenza, dove spesso le donne si rifugiano e vengono aiutate, chiudono per mancanza di fondi. È questa l’attenzione che siamo disposti a dare al problema?».
Ripensare al rapporto fra uomini e donne, d’accordo. E intanto?
«Intanto serve una forte e convinta campagna di informazione contro le violenze. Serve lavorare nelle scuole, introducendo un’educazione al rapporto fra i sessi e ai sentimenti che possa gettare basi nuove in questo Paese. Penso ad alcune esperienze positive realizzate all’estero di programmi specifici antiviolenza svolti nelle carceri. Dobbiamo trovare la forza di essere piu combattive su questi argomenti. Ci sarebbe tanto da fare invece di fingere di meravigliarsi, ogni volta, quando una donna viene uccisa da chi diceva d’amarla».
Il Corriere della Sera 05.03.12
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