Sei ancora quello della pietra e della fionda/ uomo del mio tempo…». Il poeta scriveva sotto l’impressione di una guerra devastante e da poco conclusa. Ma la sua apostrofe sconsolata si può estendere ai nostri tempi, anche dove la guerra è assente o si manifesta in forme intestine e subdole. Parlo della «guerra» alle donne che è in atto nel nostro Paese. Mentre incombe l’8 marzo, ci si preoccupa di «quote rosa», di una equilibrata rappresentanza femminile nelle professioni, nelle istituzioni e nell’arengo politico; si prova magari compiacimento per qualche risultato di alto valore simbolico (le tre donne ministro nel governo Monti). Ma in Italia le donne continuano a morire in sequenze agghiaccianti. Rashida Manjoo, che per conto delle Nazioni Unite si occupa di violenza contro il «sesso debole», parla di femminicidio. Brutto il neologismo, ma più brutta la situazione che denuncia.
Nel 2010 le donne assassinate sono state 127, solo nei primi mesi del 2011 salgono a 97. Semplificando la macabra contabilità, si rileva che ogni tre giorni in Italia viene uccisa una donna. Il crimine, nella maggior parte dei casi, viene compiuto all’interno della famiglia, da mariti, partner, parenti e perfino figli. Le vittime scontano la loro fisica fragilità, ma anche la persistenza di una mentalità che le considera esseri inferiori, fatti oggetto di un possesso inalienabile. Ed a moltiplicare l’orrore, si danno casi di «punizioni» trasversali, esercitate sugli affetti più radicati di una madre. È di ieri la storia dell’uomo che, per vendicarsi dell’abbandono da parte della moglie, ha ucciso a martellate il figlio adolescente. Un altro, non molto tempo fa, ha scagliato nel Tevere una tenera creatura. Accade in un Paese che si fa vanto di una cultura che ha reso un inarrivabile omaggio all’essenza femminile.
Prima delle effimere e futili vallette televisive, vengono Beatrice e Laura e Silvia che hanno segnato nell’arte e nell’immaginario collettivo un luminoso percorso. E non si può eludere il culto diffuso, non soltanto superstizioso e miracolistico, della Madonna. Questo non basta, certo, a vanificare l’eredità del «mal seme d’Adamo» e le pulsioni di una crassa ignoranza. Ma occorre porre un argine -di coscienza e di civile sollecitudine- a così gravi misfatti. Attraverso un infaticabile lavoro di educazione (anche gli assassini, vivaddio, sono andati a scuola), centrato sulla dignità di ogni persona, di ogni specifica attitudine e vocazione. Attraverso una più severa, e dissuasiva, sanzione delle leggi. Deprecando, ad esempio, la recente pronuncia della Cassazione che non ha ritenuto meritevoli del carcere i sozzi responsabili d’uno stupro di gruppo.
La Stampa 04.03.12