La Rai è di nuovo e sempre all’attenzione dei media, ma l’aria è cambiata: e non solo perché non si trova più chi la difenda. La novità è semmai un’altra: sulla grande stampa non si chiede più la privatizzazione come unica medicina per la grande malata.
Non la chiede in un editoriale sul Corriere della sera di qualche giorno fa Massimo Mucchetti, che sull’esempio francese sembra invitare la mano pubblica a «far da levatrice all’iniziativa privata nella fiction, nei format e nell’animazione». Non la chiedono gli investitori pubblicitari che dicono (conta la proposta ma anche il luogo in cui viene avanzata) di volere una Rai ancora pubblica, ma retta da una Fondazione che la preservi dalla lottizzazione partitica e con un canale senza spot pagato dal canone. Altra importante novità: il Pd si chiama fuori dalle nomine, sconfessa la lottizzazione. Che faranno Pdl e altri? E che cosa possono fare se davvero il Pd si ritira? Comincia a delinearsi così un quadro nel quale è possibile ripensare un vero servizio pubblico della comunicazione. Le donne di Se non ora quando lo hanno chiesto per prime dal palco di piazza del Popolo l’11 dicembre scorso e le giornaliste di Giulia lo hanno ribadito in una lettera aperta alla ministra Fornero. Non vogliamo entrare nel merito per definire l’architettura della nuova possibile azienda radiotelevisiva pubblica: quanti canali, e quanti senza spot, e come organizzati. Ribadiamo però quel che abbiamo detto a piazza del Popolo: un servizio pubblico deve avere una missione. Deve avere cioè un nucleo profondo e forte di identità. Solo così potrà preservarsi, difendendosi dall’invadenza degli innumerevoli soggetti interessati a utilizzarne la forza comunicativa a fini di per sé leciti, ma sentiti in fin dei conti come impropri da chi paga il canone. Avere una missione significa avere il mandato ineludibile a introdurre nella programmazione valori e idee che non sono correnti, che non si trovano sul mercato. Insomma, valori e idee inediti. Se quei valori e quelle idee fossero moneta corrente, ossia già senso comune, che bisogno ci sarebbe del servizio pubblico? Ci fa piacere registrare anche qui una consonanza con chi ha certamente grande esperienza sulla questione. Con Lorenzo Sassoli De Bianchi, presidente Upa, diciamo (e non sapremmo dirlo meglio) che nel servizio pubblico servono: «Format e contenuti liberi dagli obiettivi commerciali e che di conseguenza sappiano far evolvere l’immaginario collettivo esattamente così come la Rai fece alle origini della sua storia».
Si tratta di individuare la missione, una mission – si dice ora – all’altezza di quella che negli anni Cinquanta e Sessanta regalò una lingua agli italiani. Al servizio pubblico, dunque, a quella parte della comunicazione di massa che continuerà a parlare in italiano e che deve essere fabbricata in Italia, le donne dal palco di piazza del Popolo hanno chiesto di azzerare tutto e ripartire per una nuova avventura. Attraverso informazione, educazione, divertimento, attraverso tutte le forme della moderna comunicazione, il servizio pubblico faccia vivere l’idea non più neutra di popolo.
Promuova una cultura che affermi e faccia diventare senso comune ciò che già esiste ma non viene né visto, né elaborato: una società composta da due generi, donne e uomini: con le vite vere, i desideri, i progetti degli uni e delle altre. Dal governo Monti, che si appresta a metter mano alla governance della Rai, ci si attende fin da subito nomine di donne di alto presigio e che sentano l’urgenza di ridefinire la missione di quell’azienda.
L’Unità 02.03.12