Negli ultimi giorni si sono verificati due eventi su cui credo sia opportuno riflettere: la recente intervista dell’Ad di Fiat Sergio Marchionne sullo stato produttivo dell’azienda e la «sbullonatura» della bacheca dell’Unità alla Magneti Marelli. Due fatti apparentemente diversi, ma non del tutto dissimili.
Marchionne con la sua intervista al Corriere di fatto smentisce ed archivia il progetto di «Fabbrica Italia»: l’Ad di Fiat sostiene che «… abbiamo deciso di non parlare più di fabbrica Italia. Siamo l’unica azienda al mondo da cui si pretendono informazioni così di dettaglio… », rivendicando così la cacciata della Fiom dalla Fiat e non escludendo la chiusura di alcuni stabilimenti. E tutto ciò senza che i sindacati firmatari dell’accordo, che aveva quale premessa gli investimenti, trovino il modo di far sentire la loro voce e senza una presa di posizione netta da parte del Governo che vede mettere in discussione una parte fondamentale della produzione industriale del nostro Paese. Né un accenno sulla politica industriale di questo Paese, né un richiamo all’esigibilità degli accordi (per dirla come Marchionne) o alla mancata applicazione, nel caso di Melfi, di una sentenza della magistratura. Nello stesso tempo la Magneti Marelli, azienda del Gruppo Fiat, dopo cinquant’anni, ha deciso di smantellare le bacheche dove veniva affissa l’Unità, compiendo un gesto che non sarebbe stato immaginabile neanche durante gli anni di maggiore scontro ideologico. Credo che questi due avvenimenti, se pur diversi tra loro, abbiamo un forte legame. Da un lato si vuole mano libera nei confronti di tutti (siano essi i sindacati e lo stesso governo) e nelle scelte di politica industriale e di investimenti senza la minima volontà di mediazione, e dall’altro si sceglie un atto simbolico per dimostrare la rimozione del dibattito e del confronto nei luoghi di lavoro. Siamo di fronte al tema centrale: la democrazia. È pensabile che un’azienda, che ha ricevuto tanto dall’Italia per contributi economici e posizione dominante, possa non interloquire con i territori, con le parti sociali, con l’esecutivo? Ed è sostenibile la cacciata dell’Unità dopo cinquant’anni da una fabbrica? Ed è accettabile al tempo stesso che si trovi il modo di non reintegrare dei lavoratori sul luogo di lavoro come stabilito da una sentenza?
Io credo che a questi interrogativi dovremo provare a dare delle risposte e, come è evidente, si tratta di domande che interrogano innanzitutto la politica, almeno la buona politica e che dovrebbero interrogare anche i tanti «liberal» del nostro Paese. Provare a rispondere a queste domande potrebbe aiutare anche a decidere se andare o meno alla manifestazione della Fiom. Io una risposta l’ho trovata e ho deciso di andare».
L’Unità 01.03.12