«E dopo?». In genere questo è l’incipit di interrogativi più complessi ed esistenziali. Da un po’ di tempo sta diventando anche la domanda che occupa i giorni delle forze politiche oltreché dei commentatori che si interrogano su ciò che ne sarà della politica dopo il governo Monti. In effetti l’interrogativo non sembra infondato sia alla luce di ciò che sta facendo il governo in carica, sia ancor di più di ciò che sembrano non riuscire a fare le forze politiche.
Si tratta infatti di un governo “strano” per tante ragioni, compreso il dato che è sostenuto da una coalizione parlamentare non formalizzata in cui le sue componenti non si riconoscono alleate l’una con l’altra. Non è la grosse koalition fra la Cdu e la Spd, che vedeva nella compagine governativa esponenti dell’uno e dell’altro partito e nell’assemblea parlamentare un coordinamento fra i due gruppi alleati.
In Italia i partiti sono assenti dalla compagine governativa e, nello stesso tempo, rifiutano di dar vita ad una compagine parlamentare. Il rischio oggettivo è quello che alla lunga si insinui la convinzione nell’opinione pubblica di una relativa inutilità dei partiti. Per questo Gustavo Zagrebelsky ha lanciato l’allarme: occorre riportare in onore la politica. E Ilvo Diamanti affonda: la questione vera è se sia possibile una democrazia rappresentativa senza partiti.
Io penso che riportare in onore la politica comporti l’esigenza di riportare in onore la democrazia e a tal fine occorra un impegno “pedagogico” sia dei partiti che dei mezzi di informazione e formazione dell’opinione pubblica. La storia, anche recente, delle democrazie è attraversata infatti dall’illusione di poter realizzare la democrazia senza i partiti, illusione pagata a caro prezzo nel secolo scorso che ci ha mostrato i volti diversi ed uguali di tirannie apparentemente democratiche perché nate dalle elezioni, ma in effetti figlie della degenerazione e della perdita di senso dei partiti.
Ho seguito da vicino l’illusione ingenua dello stesso Vaclav Havel, il primo presidente della Cecoslovacchia liberata dal comunismo, che si rifiutò di instaurare una democrazia dei partiti preferendo dar vita a un forum civico (“Obchansky Forum”), un’esperienza che ha evitato una degenerazione letale di quella democrazia solo grazie all’intervento di vecchi leader ex comunisti ed ex popolari, convertiti alla democrazia come Dubcek, Bartoncik e Lux, che non riuscirono peraltro ad evitare che il paese finisse nelle mani di Vaclav Klaus esponente della destra, fortunatamente democratica.
La preoccupazione, dunque, che si insinui la convinzione in questa Italia guidata dai tecnici che si possa fare a meno della politica e dei partiti è veramente seria e le forze politiche non debbono sottovalutarla. Del resto è sempre Zagrebelsky che ci ricorda come in un antico testo anonimo firmato “Il vecchio oligarca” (“La costituzione degli ateniesi”) si sostenesse che la democrazia possa degenerare lentamente «senza rendersene conto e senza avere le energie per autoriformarsi ». Viene alla mente il paradigma di Böckenforde, il grande costituzionalista cattolico e socialdemocratico tedesco, secondo cui la democrazia vive di presupposti che non riesce a generare.
Se vogliamo, dunque, essere all’altezza della responsabilità, una volta si sarebbe detto della “vigilanza” su ciò che accade e, ancor più, di un’azione volta a ricostruire e rimotivare ciò che si è consumato, credo che noi democratici dobbiamo osservare il tempo e il processo nel quale siamo inseriti con intelligenza non nostalgica, ma aperta agli apporti che la cultura dei diritti personali e comunitari oltreché delle istituzioni di governance oggi è in grado di offrire alla politica.
Senza nostalgia non significa soltanto rinunciare a precedenti storie e paternità ideologiche, ma significa anche capire che il governo Monti ha compiuto – tra altri – il miracolo di delegittimare e archiviare il modello della politica e dell’uomo politico senza qualità che ha connotato soprattutto l’ultima parte della cosiddetta Seconda repubblica. Dell’uomo politico in particolare, come dice Diamanti, «non migliore di noi ma come noi. Anzi: peggio di noi. Reclutato per meriti estetici, piuttosto che etici o per fedeltà al capo». È finito quel modello. Il governo Monti lo ha sostituito con quello della competenza, della sobrietà e della serietà. Tutti dovranno tenerne conto, il Pd in particolare.
Guai a noi se si proponesse alle prossime elezioni l’alternativa fra competenza e incompetenza, fra competenza e approssimazione, fra competenza e politica, passaggi scivolosi e non impossibili. Sotto questo profilo il Pd di Bersani che sin da subito ha scelto la strada opposta a quella della personalizzazione della politica e della insostenibile leggerezza del messaggio politico ci aiuta molto. Ma l’esperienza del governo Monti ci obbliga lungo quella strada ad andare ancora più avanti. Ci obbliga a mostrare il volto di un partito non di carta ma neppure di cemento, un partito che sappia “auscultare” (come diceva Moro) la schiena del paese e raccogliere la domanda nuova di politica seria e competente, cioè affidata a uomini conoscitori della vita dei cittadini ma non di meno dei meccanismi tecnici per risolvere i problemi in questo mondo globalizzato e sfuggito ormai alla sovranità tradizionale della politica.
È l’unica strada per riacquistare quella fiducia dei cittadini che oggi sarebbe scesa, come dice Mannheimer, all’ 8%. Il Pd ha sicuramente più possibilità di altri di riuscirci. Qualità del progetto e qualità (culturale, professionale ed etica) del personale sono le sfide che lo attendono alle prossime elezioni.
Pierluigi Castagnetti
da Europa Quotidiano 28.02.12