Altro che guardare a Francia, Germania e altre locomotive europee. Altro che aspirare a modelli perfetti, a riforme fantasmagoriche, a grandi principi. I numeri riportano tutto alla triste realtà del nostro Paese. Quando si tratta di stipendi e salari, l’Italia ha più che fare con la Grecia, con la Spagna, con il Portogallo, con la Slovenia. Lo certificano i dati Eurostat, pubblicati nel recente rapporto «Labour market statistics». Sono riferiti al 2009, in piena crisi, dopo la quale tutto è stato per lo meno congelato. E così scopriamo che la media degli stipendi che percepiscono i lavoratori italiani è di 23.406 euro lordi. Si tratta della metà di quanto invece si guadagna nel piccolo Lussemburgo (48.914), ma anche in Olanda (44.412) e nella grande Germania (41.100). La Francia è lontanissima da noi (33.574), mentre molto meglio di noi stava la Grecia (29.160), la Spagna (26.316). Per consolarci si può guardare sotto di noi, dove si trovano Portogallo (17.129), Slovenia (16.282), con il fanalino di coda Slovacchia (10.387). Anche per quanto riguarda l’aumento sul 2005, l’avanzamento per l’Italia risulta tra i più ridotti: in quattro anni il rialzo è stato del 3,3%, molto distante dal +29,4% della Spagna, dal +22% del Portogallo. E anche i Paesi che partivano da livelli già alti hanno messo a segno rialzi rilevanti: Francia (+10,0%) e Germania (+6,2%). FORNERO: AUMENTIAMO PRODUTTIVITÀ Dati prontamente commentati dalla titolare del governo in materia Elsa Fornero. Da New York, dove si trova per la settimana dell’Onu sulla condizione femminile, la ministra del Welfare sottolinea: «In Italia abbiamo salari bassi e un costo del lavoro comparativamente elevato. Bisogna scardinare questa situazione, soprattutto aumentando la produttività».Una strada giusta a patto di alzare i salari,commenta Francesco Boccia (Pd): «Il ministro Fornero ha ragione a parlare di aumento della produttività, ma l’obiettivo sarà un vero e proprio miraggio se non aumentano a loro volta i salari netti, attraverso la diminuzione immediata della pressione fiscale su quelli più bassi». I dati vengono commentati anche da Maurizio Zipponi, responsabile Welfare dell’Idv: «L’Italia si aggiudica gli ultimi posti nella classifica sulle retribuzioni lorde dei lavoratori, senza contare che abbiamo anche un’elevata tassazione sul lavoro. Ci auguriamo solo che il presidente del Consiglio, abituato a guardare all’Europa, voglia prenderla d’esempio anche per ciò che riguarda lo stipendio medio dei lavoratori», conclude Zipponi. Fa leva sulla riforma fiscale invece il segretario generale dell’Ugl Giovanni Centrella: «Bisogna mettere mano al fisco e contemporaneamente aiutare il Paese a crescere, solo così eviteremo un ulteriore depauperamento degli stipendi italiani già molto bassi, ma dobbiamo agire presto». Il tema è sempre quello, dunque: la riforma del mercato del lavoro. Elsa Fornero ieri si è detta «fiduciosa» sulla possibilità di un’ampia intesa. Tornando però all’attacco sull’articolo 18: «Il tema va affrontato in maniera laica, senza levate di scudi». E ha annunciato che alla vigilia del sesto incontro con le parti sociali di giovedì incontrerà il premier Mario Monti. «Voglio convincere le parti sociali e gli italiani che ci sono molte cose da cambiare nel mercato del lavoro, non perché ce lo chiedono l’Ocse o l’Fmi, ma perché bisogna creare un mercato più inclusivo», sottolineando come bisogna «aprire nuove prospettive ai giovani e alle donne, eliminando quella flessibilità che genera precarietà». A risponderle prontamente arriva il capogruppo Pd in commissione Lavoro Cesare Damiano: «Per supportare l’ottimismo del ministro sarebbe necessario che il governo cominciasse a indicare con quali risorse si vogliono migliorare le tutele degli ammortizzatori sociali. Questo renderebbe tutto il resto sicuramente più agevole. Sull’articolo 18 noi riteniamo che sarebbe di grande giovamento per le imprese e i lavoratori intervenire sulla velocità del processo del lavoro attraverso una procedura d’urgenza,darebbe alle imprese e ai lavoratori quella certezza e serenità che valgono più di qualsiasi concessione sul terreno della flessibilità in uscita». PASSERA: PARTI SOCIALI NECESSARIE Sul tema ieri è intervenuto anche Corrado Passera, titolare dello Sviluppo e altro ministro presente al tavolo con le parti sociali. Rispondendo ad una domanda durante “L’intervista” di Maria Latella su Sky, in cui si ricordava la frase pronunciata da Fornero («faremo la riforma con o senza l’accordo»), Passera ammette che «è una frase detta troppe volte», confermando una sensibilità più alta al dialogo con sindacati e imprese. «Noi ha poi spiegato vogliamo modificare in meglio tante fasi del lavoro e bisogna fare di tutto per trovare un accordo» con le parti sociali. «È chiaro continua che il governo alla fine ha la responsabilità di fare sintesi e superare le impasse ma l’accordo è l’obiettivo. Sono convinto che si riesce a lavorare solo se sindacato e aziende trovano la maniera di lavorare insieme».❖
L’Unità 27.02.12
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«Stipendi italiani troppo bassi.Guadagnate la metà dei tedeschi», di Luigi Offeddu
I lavoratori italiani sono fra i meno pagati in Europa. Un salariato italiano, a parità di condizioni, guadagna circa la metà di quanto guadagnano i suoi colleghi in Germania, o in Lussemburgo, o in Olanda. Addirittura, viene pagato quasi un terzo del salariato danese. E un pò meno di spagnoli e ciprioti. Ma fino a ieri — prima del piano di austerità imposto ad Atene dall’Europa — l’italiano ha avuto degli stipendi perfino più magri di quelli greci.
Questo dicono — nella versione riportata dalle agenzie di stampa — le tabelle dell’Eurostat, l’agenzia europea di statistica, sugli stipendi medi lordi annuali riferiti ad aziende con più di 10 dipendenti nel campo dell’industria, delle costruzioni, dei servizi e del commercio. E disegnano un continente salariale dove l’Italia sta, appunto, nella fascia delle posizioni più basse. Forse non sono tutti dati univoci, perché certe statistiche riguardanti l’Italia sembrano fermarsi al 2006, mentre altri Paesi vengono “fotografati” anche nel 2009 e più oltre, rendendo obiettivamente difficile un raffronto omogeneo.
Ma in ogni caso, qualche manciata di decimali e un anno in più o in meno non cambiano la realtà di fondo: in generale l’Italia si colloca con i suoi salari al dodicesimo posto dell’Eurozona, a stento supera il Portogallo, Malta, la Slovenia e la Slovacchia. Lo stipendio annuo, lordo, che l’Italia offre ai suoi lavoratori è in media di 23.406 euro, mentre la Germania arriva a 41.100 euro; il Lussemburgo a 48.174, l’Olanda a 44.412, la Francia (nel 2010) a 34.132 euro. La Grecia, prima dell’allarme bancarotta e della grande stangata che ne è seguita, stava a quota 29.160 e ora è «precipitata» drammaticamente a 11.064 euro (922 euro al mese). In testa a tutti veleggiano la Danimarca (56.044), e la Norvegia che ancora non fa parte della Ue (51.343). «In Italia abbiamo salari bassi e un costo del lavoro comparativamente elevato — ha commentato il ministro del lavoro Elsa Fornero —. Bisogna scardinare questa situazione, soprattutto aumentando la produttività». «Le diamo ragione — ha ribattuto Francesco Boccia del Pd — ma l’obiettivo da lei indicato sarà un vero e proprio miraggio se non aumentano a loro volta i salari netti, attraverso la diminuzione immediata della pressione fiscale su quelli più bassi». E una parola ha voluto spenderla anche Pasquale Cafagna, del sindaco di polizia Siulp: «I nostri stipendi medi non superano i 1.500 euro. Noi siamo in braghe di tela, speriamo che la trasparenza del governo Monti voglia dire anche riduzione di stipendi spropositati come quelli di manager pubblici e politici». Non solo i salari in Italia sono bassi ma sono anche impiegati più o meno all’80% per le spese giornaliere, dice Carlo Pileri dell’Adoc (Associazione per la difesa e l’orientamento del consumatore): «Gli italiani spendono in media ogni giorno circa 37 euro e cioè il 79,5% del proprio reddito quotidiano al netto delle tasse».
E c’è un altro fatto, secondo la lettura di queste statistiche, che colpisce: questo è un panorama in continuo movimento, per considerazioni economiche o anche sociali i Paesi che qualche anno fa stavano più indietro hanno recuperato il terreno perduto, e anche l’Italia ovviamente lo ha fatto; ma ricorrendo a una marcia più bassa, quando non perdendosi per strada. Infatti, in 4 anni fino al 2009, avrebbe incrementato i suoi stipendi medi del 3,3%, mentre Spagna e Portogallo (con Grecia e Irlanda i cosiddetti «Pigs», i Paesi tre o quattro anni fa considerati più a mal partito) hanno fatto balzi in avanti rispettivamente del 29,4% e del 22%. E il Lussemburgo, che comunque partiva da retribuzioni già buone, ha irrobustito ancora le sue buste paga del 16,1%; il Belgio dell’11%, la Francia del 10%, la Germania del 6,2%, l’Olanda del 14,7%.
Qualche consolazione può arrivare — forse — da altri dati, quelli sulla differenza di retribuzione tra uomini e donne. Non da oggi, la media europea mostra un desolante 17% (forbice fra la media del salario orario di lavoratori e lavoratrici), mentre l’Italia si attesta sotto il 5%. Anzi: subito dopo la Slovenia, è il Paese che può vantare il divario più limitato. Però da noi le donne lavorano di meno, e di meno si ricorre al part-time: anche la Bulgaria o la Romania hanno una forbice ben ristretta, ma anche lì l’occupazione femminile è più bassa. Dunque non vi sono ragioni per brindar troppo, neppure in questo.
Il Corriere della Sera 27.02.12
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“Stipendi, Italia ko Guadagniamo la metà dei tedeschi”, di Marco Zatterin
Salario basso, dinamica lenta. Un italiano che lavora nell’industria o nei servizi guadagna poco meno della metà di quanto prende uno che fa lo stesso lavoro nei Paesi Bassi o in Germania. In media, secondo i dati comparati del 2009, da noi si mettono in tasca a fine anno 23.406 euro, contro i 44.412 olandesi e i 41.100 tedeschi. Certo, nelle due locomotive continentali la vita costa più cara, però la differenza è significativa, così sono numeri che fanno riflettere. Come quelli che caratterizzano Paesi economicamente meno forti del nostro, come Spagna o Grecia, dove l’assegno per un operaio o un tecnico appare più alto, rispettivamente 28 e 31 mila euro.
La morale è che nell’Eurozona, ovvero nel club dei Paesi che hanno adottato la moneta unica, le paghe italiane dei comparti più strategici sono al dodicesimo posto su diciassette. «Una ragione è nella competitività stagnante – spiega una fonte europea -. La crescita della produttiva oraria in Italia è rimasta ferma dal 2000 al 2010 con evidenti riflessi sulla formazione del reddito». Questo non è successo per gli spagnoli e, sino al crac del 2009, non era il caso nemmeno per i greci. Si osserva che entrambi i Paesi hanno poi frenato più significativamente del nostro, mettendo in mostra squilibri di fondo ancora più gravi. Ma il dato, per la sua valenza relativa, resta comunque sul tavolo.
Le cifre sono contenute nel rapporto annuale sul lavoro che Eurostat, l’istituto di statistiche Ue, ha pubblicato in autunno e l’Ansa ha rilanciato ieri. Il volume non sottolinea solo il ridotto valore relativo del salario italiano, ma attira l’attenzione anche sulla variazione più contenuta rispetto alle economie più pesanti. Dal 2005 al 2009 le retribuzioni industria/servizi sono cresciute del 3,3%, un quinto rispetto all’Olanda, un terzo sulla Francia (10), circa la metà della Germania (6,2). Molto meno dell’inflazione che nel 2008-9 ha provocato un aumento dei prezzi 3,6 punti, mentre l’economia ne perdeva 6,3. Gli altri grandi hanno fatto meglio. Di nuovo, spiegano a Bruxelles, «per merito di una maggiore produttività».
Il dato va preso con le molle. Nello stesso quinquennio, in Spagna i salari sono aumentati del 29,4%, in Portogallo del 22, e si è visto che fine hanno fatto. Per la Grecia manca il dato 2005, altro presagio statistico inquietante, visto che sui numeri inesatti forniti a Eurostat a proposito del deficit si è costruita la crisi drammatica che ancora attanaglia Atene. Detto questo, il documento regala nel complesso il quadro di un’Europa ancora lontana dall’essere composta di Paesi che s’assomigliano. Nei Baltici il reddito annuo è inferiore ai 9 mila euro, in Polonia supera appena i 10 mila, in Bulgaria siamo a 4500, il doppio rispetto a prima dell’ingresso nell’Ue. Negli ultimi due anni la situazione dovrebbe comunque essere cambiata. I numeri sono così, bisogna esaminarli con cautela. Vale per quello sul differenziale salariale fra uomini e donne italiani, appena il 5%, parecchio sotto la media europea. Un successo? Non proprio. E’ il bassissimo tasso di occupazione "rosa" a contenere lo spread. Succede lo stesso in Polonia, Portogallo, Bulgaria e Malta. Tutti sistemi in cui le signore e signorine che restano a casa sono la maggioranza.
La Stampa 27.02.12