Il ministro Passera ha ribadito ieri che il governo non annuncia «tesoretti» prima di averli incassati. Monti aveva già rinviato la predisposizione di un fondo per gli sgravi fiscali a quando la sua alimentazione assumerà consistenza. Ciò non smentisce l’intenzione di utilizzare i proventi della lotta all’evasione e agli sprechi per aiutare la crescita, anche abbassando le tasse.
Dati i vincoli di bilancio, è meglio per ora non pensare a ridurre il gettito complessivo delle imposte, mentre è sacrosanto cambiarne la composizione e la distribuzione: far pagare di più chi evade o elude, sgravare chi paga troppo, tassare di più il capitale e alleviare gli oneri fiscali e parafiscali che gravano sull’occupazione, sia dal lato delle imprese che da quello dei lavoratori. Sarebbe meglio farlo nel quadro di un’armonizzazione fiscale europea. Quanto alla spesa pubblica, è vero che la sua riduzione consente di accelerare gli sgravi fiscali; ma è anche vero che i risparmi sulle spese meno utili, i soldi buttati via, sono chiamati ad alimentare le spese più preziose e scarse, come quelle che oggi servirebbero per facilitare la riforma degli ammortizzatori sociali e quindi dei contratti di lavoro.
Il governo Monti ha un mandato a termine e compiti urgenti e precisi. Può mettere in sicurezza il saldo fra entrate e uscite e razionalizzarle un poco entrambe. Ma il suo lavoro di emergenza può servire alle forze politiche anche per prepararsi ad affrontare una scelta strategica più di lungo termine: con un bilancio in equilibrio, quanto è bene siano grandi le entrate e le spese?
Affiora a tratti l’idea che la vera crescita si possa attuare solo con un forte ridimensionamento dello Stato, sia della spesa totale che delle imposte. Come è noto ci sono al mondo esempi differenti e non mancano i Paesi che crescono bene con settori pubblici tutt’altro che piccoli. È comunque opportuno che la questione rimanga sullo sfondo, che la si discuta con crescente consapevolezza e trasparenza.
L’opinione di chi scrive è che è sempre più difficile che un’economia cresca in modo sostenibile e sano, rispettando i valori attorno ai quali si è andata costruendo l’integrazione europea, con uno Stato economicamente «minimo». I bisogni pubblici dei tempi moderni sono immensi e crescenti. Il loro soddisfacimento è indispensabile perché le produzioni private siano competitive e la loro profittabilità non sia instabile e illusoria o, addirittura, frutto di rapine dei prepotenti. Si possono privatizzare alcune produzioni pubbliche ma occorre spendere per regolare e controllare ciò che si è privatizzato. Si devono assolutamente ridurre i tanti sprechi nella pubblica amministrazione, ma sono pronti tanti capitoli di spesa dove ridirigere le risorse risparmiate. Carceri, scuola, sanità, ricerca e patrimonio culturale (che, lungi dall’esser superfluo, aiuta a sfamarci e a crescere), difesa del territorio, che ci crolla addosso e persino ci uccide perché sempre più dilaniato dalla privatizzazione, sia formalmente legale che criminale, degli spazi pubblici. Servono molti soldi e un grande sforzo politico e amministrativo.
Più che tagliare la spesa totale occorre fissare le priorità in una lunga lista di bisogni pubblici pressanti, con grande cura e dettaglio e un buon dibattito politico. E occorre mettere a punto i metodi organizzativi perché la spesa a essi dedicata sia fatta bene, rendicontata con rigore, senza sprechi e privilegiando ciò che abbiamo deciso essere più importante. È un compito che va oltre la «spending review» di emergenza che in pochi mesi può fare il governo attuale. È una strategia politica a lungo termine che può rivoluzionare interi settori della pubblica amministrazione. Non è un compito facile: ma scegliere le priorità e assicurare l’efficienza delle spese non è facile nemmeno nel settore privato: gli esperti di governo societario sanno bene quanto nelle imprese sia complicato controllare i costi, impedire gli sprechi e le appropriazioni indebite. Occorre la disponibilità al cambiamento, soprattutto di chi oggi è impiegato nella pubblica amministrazione.
Il taglio della spesa pubblica complessiva non è una soluzione. Il taglio cieco e trasversale è insostenibile e dannoso e ora tutti sanno che ci vogliono «riforme strutturali». Le riforme debbono ridurre le spese inutili e cattive, ma non devono lesinare quelle buone. E non per un presunto «effetto espansivo sulla domanda aggregata». Ma perché contribuiscono alla crescita dal lato dell’offerta, cioè aumentando la capacità produttiva dell’economia e la sua qualità.
Non dobbiamo rassegnarci all’idea che il settore pubblico sia comunque inefficiente e vada quindi ridotto alle minime dimensioni. Se non possiamo sperare che produca abbondanti servizi collettivi con giusti incentivi e in modi efficienti e corretti, come possiamo sperare che vigili bene il traffico dei privati e impedisca loro di farsi del male a vicenda? Si tratta di dedicarsi al compito con qualche entusiasmo, mobilitando l’opinione della gente con un messaggio di impegno collettivo che superi la sensazione di impotenza che provano i singoli individui di fronte a compiti che richiedono azione collettiva. Un messaggio che metta da parte ideologie superate e contrapposte, gli infruttuosi, astratti dibattiti fra chi si autoproclama liberale e chi demonizza i mercati privati. Un messaggio che lascerà forse spazio per qualche utile dialettica fra «destra» e «sinistra», sui metodi da usare; ma che vuole convergenza sull’obiettivo di fondo: la cura speciale dei beni e dei servizi pubblici e dei modi per produrli in quantità adeguata e senza sprechi.
La Stampa 27.02.12