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"Dopo il caso Rai dimissioni in bianco, combattere l’illegalità", di Teresa Bellanova

Un’arma di ricatto micidiale, una spada di Damocle sospesa sulla propria speranza: firmare le proprie dimissioni in bianco, senza data e lasciandole al libero arbitrio del datore di lavoro al momento dell’assunzione, è la negazione della possibilità di darsi una stabilità di vita e una prospettiva di costruzione del futuro.
Il lavoro che in questi giorni stiamo portando avanti in Commissione lavoro, con una proposta di legge per debellare questa pratica odiosa, riavvia una battaglia che parte da lontano. Nel 2007, con la norma introdotta dal Governo Prodi, sembrava essere conclusa. Ma nel 2008, con il nuovo Governo, giunse la doccia fredda del suo ripristino. Nel biennio successivo, 800 mila lavoratrici nel corso della loro vita lavorativa, in occasione di una gravidanza, sono state licenziate o messe in condizione di doversi dimettere. Quattro su dieci donne costrette a lasciare il lavoro hanno poi ripreso l’attività. Le opportunità di ritornare a lavorare non sono state però le stesse in tutto il Paese: sono la metà delle licenziate nel Nord e addirittura meno di un quarto nel Mezzogiorno. Si stima che nel 2009 quasi 18.000 donne si siano dimesse volontariamente nel primo anno di vita del bambino e più di 19.000 nel 2010.
La gravidanza oggi continua a rappresentare una penosa «pregiudiziale» per il mantenimento del posto di lavoro. E a smentire chi, anche a dispetto dei dati sopracitati, si volesse ostinare a considerarlo un atto ormai desueto giunge la stringente attualità, con la denuncia di questi giorni sulla cosiddetta «clausola maternità» inserita dalla Rai nei contratti di consulenza. Non contrastare questa realtà rappresenta un’aperta violazione della Convenzione Onu sull’eliminazione delle forme di discriminazione della donna, che nell’art. 11 al punto 2 recita: «Per prevenire la discriminazione nei confronti delle donne a causa del loro matrimonio o della loro maternità e garantire il loro diritto effettivo al lavoro, gli Stati parti si impegnano a prendere misure appropriate tendenti a: proibire, sotto pena di sanzione, il licenziamento per causa di gravidanza o di congedo di maternità (…)». Ma la pratica ci dice che oggi in Italia si può essere «dimissionati» per i più svariati motivi: dalla maternità, agli infortuni, alla malattia e all’età. Le norme in vigore si prestano anche a strumento di discriminazioni riguardo ai rapporti con le organizzazioni sindacali o addirittura alle opinioni politiche.
Le dimissioni in bianco aggirano ogni interpretazione possibile del concetto di «giusta causa» del licenziamento, lasciando il lavoratore privo perfino del sostegno di eventuali ammortizzatori sociali. La volontà di intervenire in materia espressa dal Ministro Fornero coglie la necessità di reintrodurre tutele che riguardano la dignità delle persone e del lavoro.
Il ripristino della norma che vieta le dimissioni in bianco rappresentano un interesse anche di quei datori di lavoro che applicano le leggi e i contratti e che subiscono la concorrenza sleale di quanti abbattono i costi di produzione evadendo obblighi. Non è raro che le dimissioni in bianco vengano utilizzate per poter lucrare su eventuali benefici fiscali in caso di nuove assunzioni. Vietare le dimissioni in bianco è una scelta di civiltà, che merita ampia condivisione politica, perché non significa altro che combattere contro l’illegalità, lo sfruttamento e le minacce verso chi è più debole.

L’Unità 22.02.12