Le stime rese note ieri dall’Istat confermano che l’Italia è in recessione. Deve uscirne presto, anche per non compromettere l’aggiustamento della finanza pubblica. Per ridurre il peso del deficit pubblico sul Pil bisogna contrarre il deficit ma anche sostenere il Pil. In altre parole: le politiche per la crescita servono anche a migliorare la stabilità finanziaria. Fra l’altro, se il reddito nazionale accelera, sale il gettito delle imposte riducendo il deficit pubblico.
D’altra parte le politiche di bilancio restrittive frenano la crescita. Questo è quasi sempre vero nel breve periodo; guardando più lontano, dipende dalla qualità delle politiche restrittive che vengono fatte. Un riordino credibile e duraturo della finanza pubblica, che migliori anche l’utilità della spesa e la struttura delle imposte, può aumentare la produzione e l’occupazione.
Perciò non c’è contraddizione fra risanare la finanza pubblica e favorire la crescita. Basta fare le due cose nei modi e nei tempi giusti. Non troppo precipitosamente e con provvedimenti che migliorino l’organizzazione d’insieme dell’economia, pubblica e privata.
Invece in gran parte dell’Europa viviamo con l’incubo che il rigore finanziario non faccia attenzione alle politiche per la crescita. Il governo italiano è uno dei più attenti: ma in sede Ue manca determinazione su questo fronte. In che cosa possono consistere queste politiche?
Qualcuno parla di stimoli «keynesiani» alla domanda; in sostanza: moneta e credito più abbondanti e a buon mercato, meno imposte e nuova spesa pubblica. Ma è anche per un lungo periodo di espansione artificiosa ottenuta con stimoli del genere che il mondo intero è finito in crisi cinque anni fa. Se la soluzione fossero gli stimoli di bilancio, gli Usa non avrebbero avuto nemmeno un cenno di crisi, la Grecia starebbe ancora crescendo rigogliosamente, il Pil francese galopperebbe da tanti anni, eccetera. Se la soluzione fossero gli stimoli monetari e i tassi di interesse bassi, da tanti anni nessun Paese, sia al di qua che al di là dell’Atlantico, avrebbe problemi di scarsezza di investimenti, produzione e occupazione.
Lo stimolo macro, giustificato dal fatto che «manca domanda», non è una buona politica di crescita. Lo sono invece quelle riforme che, migliorando l’uso delle risorse, il funzionamento dei mercati e la distribuzione del reddito, correggendo gli incentivi e i criteri con cui vengono prese le decisioni dei consumatori, dei produttori e dei governi, rasserenando le aspettative sulla stabilità finanziaria dei prossimi anni, fanno crescere l’economia dal lato dell’offerta. Cioè aumentano le opportunità di produrre e le previsioni di trovare mercato delle persone e delle imprese, abbassano con la concorrenza i prezzi dei beni e dei servizi e quindi ne favoriscono l’acquisto, migliorano la quantità e la qualità dei servizi pubblici a parità di risorse impiegate.
C’è anche una via di mezzo, che può funzionare, fra politiche di domanda e di offerta: favorire spese di investimento, pubblico e privato, con grande selettività, cioè mirando a dove gli investimenti servono per far meglio le riforme, riorganizzare più efficacemente le produzioni private e la pubblica amministrazione. Sono stimoli alla domanda che hanno effetti soprattutto perché migliorano l’offerta, la capacità produttiva.
L’Ue deve riportare le buone politiche di crescita al centro degli indirizzi comunitari, con urgenza e concretezza e un po’ di enfasi. E’ anche una questione di immagine: l’Europa, soprattutto in un periodo di crisi, non può continuare a essere associata a un rigore che rischia di essere frainteso, come fosse fine a se stesso. Altrimenti finiranno per essere rifiutati insieme l’Europa e il rigore. Fra una settimana la Commissione pubblicherà un aggiornamento delle previsioni macroeconomiche: presumibilmente non sarà allegro. Credo che anche i mercati gradirebbero se, contemporaneamente, venissero a sapere che il Consiglio dell’1 marzo ha aggiunto all’ordine del giorno almeno un annuncio di concreta politica di crescita.
Fra gli annunci più desiderabili ci sarebbe quello di un vero avvio del programma di completamento del mercato unico, che è la principale opportunità di crescita per le imprese europee, soprattutto con la liberalizzazione di quei settori dei servizi che la Germania insiste nel proteggere. E’ un programma che il nostro attuale premier ha disegnato quasi due anni fa; venne accolto con i migliori complimenti ma ora, quanto ad attuarlo, sembra che persino la speciale persuasività di Monti si scontri contro l’insormontabile.
Ma potrebbe esserci altro: perché non risuscitare i piani di forte ricapitalizzazione della Bei ed emettere project bond per infrastrutture comunitarie? Perché non decidere che alcune spese di investimento, che rientrino in progetti comunitari ben definiti, saranno considerate fra i fattori attenuanti nel giudizio della Commissione sui disavanzi pubblici? Perché non accompagnare fin d’ora i terribili tagli di spesa ordinati ad Atene con qualche programma di medio-lungo periodo che contempli corposi investimenti mirati e speciali dell’Europa in quel Paese, mostrando considerazione per il potenziale della sua economia, una volta aggiustata e riformata, e per offrire ai greci, oltre a tagli e salvagente, un po’ di speranza?
La Stampa 16.02.12