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" I mali d'Italia e i predatori dell'articolo 18", di Michele Raitano

Come accadde con Pisapia prima delle elezioni a Milano, l’articolo 18 ogni giorno che passa viene individuato come la causa certa e unica di tutti i mali del sistema economico-sociale italiano: la sua presenza sarebbe l’unica determinante del nanismo delle nostre imprese, della loro scarsa competitività sui mercati, della presenza del precariato, dei pochi investitori internazionali. Andrea Ichino, in un articolo sul Corriere di ieri, hanno individuato nella presenza dell’articolo 18 e nei comportamenti settari dei sindacati la causa dei bassi salari. Nella loro visione, da una parte l’articolo 18 contribuirebbe a contenere i salari, dato che i datori scaricherebbero sulle retribuzioni il costo dell’assicurazione contro la licenziabilità loro offerta, dall’altra la difesa a oltranza degli insiders (gli iper-garantiti) da parte dei sindacati vieterebbe ai lavoratori privi di tutele di essere quanto meno risarciti tramite più alti salari dai rischi derivanti dall’instabilità contrattuale. Se la relazione supposta da Alesina e Ichino fosse vera dovremmo dunque aspettarci un vantaggio in termini di retribuzioni a favore dei lavoratori delle piccole imprese, quelle non coperte dall’art. 18. Al contrario, tutti gli studi, sia descrittivi che econometrici, evidenziano come in Italia a parità di caratteristiche individuali (anzianità, genere, titolo di studio, regione) chi lavora nelle piccole imprese viene pagato sistematicamente di meno (il divario è nell’ordine dei 10 punti percentuali). Allo stesso tempo, guardando alla semplice dinamica aggregata, i salari in Italia sono cresciuti in termini reali in modo consistente prima della crisi del ’92, per poi rimanere congelati da quel momento in poi. Dato che l’art. 18 è stato introdotto ben prima del 1992, appare evidente come le cause della dinamica salariale (e dell’ampliarsi della diseguaglianza retributiva) dipendano in tutta probabilità da ben altri fattori. Fra questi sicuramente rientra il ruolo del sindacato, ma con direzioni e impatti ben diversi da quanto sostenuto da Alesina e Ichino, dato che, a causa del suo progressivo indebolimento e dell’importanza svolta dall’accordo di concertazione del 1993 questo ha agito come un fattore di forte moderazione. Attribuire quindi alla forza del sindacato il divario salariale fra lavoratori permanenti e temporanei (dipendenti a termine e parasubordinati) o anche fra piccole e grandi imprese (a maggior tasso di sindacalizzazione) appare un po’ bizzarro, considerando quanta poca forza contrattuale ha avuto il sindacato negli ultimi anni nella fissazione dei livelli retributivi. D’altronde, un sicuro deficit di rappresentatività viene scontato da parasubordinati e partite Iva, mentre i dipendenti a termine sono coperti dagli stessi contratti collettivi di quelli a tempo indeterminato. E, a parità di condizioni, anche i dipendenti a termine (non solo i parasubordinati) scontano un divario salariale negativo nei confronti dei permanenti. E ancora, se i sindacati fossero straordinariamente efficaci nella difesa degli insiders dovremmo osservare ridottissimi flussi di caduta dai contratti a tempo indeterminato, in particolare nelle imprese con più di 15 addetti. Al contrario, da analisi dettagliate svolte sui micro-dati sulle dinamiche di carriera individuali si osserva, da un lato, quanto sia lontano dalla realtà il mito del “posto fisso” per i dipendenti a tempo indeterminato, dall’altro come la frequenza della mobilità in uscita dei lavoratori non sembri dipendere dalla dimensione d’impresa. La flessibilità in uscita dal tempo indeterminato è infatti decisamente più elevata di quella che dovrebbe caratterizzare un mercato del lavoro rigido: ad esempio, il 30% di chi, in un dato anno, è titolare di un contratto a tempo indeterminato sperimenta nei 5 anni successivi almeno un episodio negativo di perdita dello status contrattuale. Naturalmente, data la differente mortalità delle imprese, i lavoratori delle micro-imprese sono esposti ad un rischio maggiore, ma la quota di dipendenti a tempo indeterminato che sperimentano un downgrade contrattuale si modifica ben poco quando si varca la soglia dei 15 addetti. D’altro canto, la frequenza con la quale vengono stabilizzati gli atipici addirittura aumenta all’aumentare della dimensione d’impresa. Allo stesso tempo, contrariamente all’immagine di apartheid a discapito dei lavoratori atipici, la maggior parte di questi sperimenta nel giro di qualche anno un miglioramento dello status contrattuale, il problema è che però è molto facile ricadere successivamente nelle condizioni più svantaggiate. Più che estremamente rigido o solamente segmentato, il nostro mercato del lavoro appare quindi “liquido”: molti lavoratori, la maggioranza probabilmente, soprattutto fra i più giovani, fluttuano tra stati lavorativi alternando periodi con contratti standard a periodi di atipicità o di intermittenza occupazionale, che generalmente non è supportata da adeguati ammortizzatori sociali. E questa frequente transizione fra diversi stati sembra attribuibile a deficienze profonde del sistema produttivo italiano piuttosto che a meri aspetti regolamentativi o al comportamento distorto dei sindacati. I problemi del mercato del lavoro italiano, e la lotta contro le diseguaglianze pervasive che si manifestano in esso, necessiterebbero quindi di interventi ben più strutturali di quelli di cui si discute in questi giorni. Magari fosse sufficiente cambiare aspetti regolamentativi come la struttura contrattuale o l’articolo 18 per cancellare tutti i mali. E la necessità di questi interventi è d’altronde ancora tutta da dimostrare.

L’Unità 16.02.12