Dopo la riforma delle pensioni e in vista di quella sul mercato del lavoro, la decisione di Mario Monti di non firmare la candidatura di Roma per le Olimpiadi del 2020 conferma e rafforza soprattutto l’impressione di una notevole discontinuità rispetto agli abituali metodi di governo. Di fronte a ben quattro mozioni, favorevoli a una scelta opposta, da parte dei partiti che lo sostengono in Parlamento, dopo una pioggia di appelli per il «sì» di sportivi, intellettuali e imprenditori, davanti a una potente lobby che ha esercitato fortissime pressioni, Monti ha evitato di seguire la strada più conveniente e, certamente, la più comoda. Quella di sostenere la candidatura di Roma, ben sapendo che, al «Comitato internazionale olimpico», i delegati avrebbero quasi certamente preferito Istanbul o Tokyo per la sede di quei Giochi. Sarebbe stato un modo per non scontrarsi con la sua maggioranza, non deludere il Coni e i promotori, non suscitare le proteste del sindaco della capitale e non subire le critiche di chi vedeva nell’Olimpiade romana un’occasione di sviluppo economico nazionale e, magari, di buoni affari per sé.
Con la consapevolezza di raggiungere lo stesso risultato di risparmio per le finanze statali, nascondendosi dietro il paravento del Cio e delle opinioni internazionali sfavorevoli all’Italia.
Il presidente del Consiglio, invece, ha deciso di assumersi la responsabilità, diretta e chiara, di un «no», motivato con la necessità della coerenza nel significato del suo governo, nella missione che la crisi economica del Paese gli ha imposto e nel rispetto del mandato che Napolitano gli ha affidato. Una scelta certamente difficile che, però, è stata agevolata da una sensibilità, rispetto agli umori degli italiani, che sembra sicuramente maggiore, in questi giorni, di quella che la tradizionale classe politica pare dimostrare. Le parole con le quali Monti ha spiegato i motivi del suo «no» alla candidatura di Roma fanno capire molto bene come il premier temesse il segnale contraddittorio, nei confronti dell’opinione pubblica, che una decisione diversa avrebbe assunto. L’incomprensione, cioè, verso un governo che, da una parte, chiede pesanti sacrifici a tutti e, dall’altra, si avventura in una iniziativa per la quale il rapporto tra i costi e i benefici non assicura un saldo positivo, con il rischio di vanificare parte di quello sforzo che i cittadini stanno compiendo per risanare i conti pubblici.
Sono ormai molti i segnali, e quest’ultimo non è il meno importante, di come questo governo riesca, meglio dei partiti e anche delle forze sociali organizzate, a inserire il suo comportamento nelle attese dei cittadini. Lo testimonia, in senso contrario, la ritualità e la ripetitività delle reazioni che, anche ieri sera, sono arrivate dopo il «no» alla candidatura olimpica di Roma e il loro clamoroso contrasto con le risposte che, in quasi tutti i sondaggi d’opinione organizzati da tv e siti Internet, hanno confermato il sostanziale accordo della grande maggioranza degli italiani con la scelta di Monti.
Al di là del metodo e della coerenza programmatica ispiratrice del governo, occorre valutare, infatti, le condizioni nelle quali l’Italia avrebbe avanzato quella candidatura. Per avallare, ma anche per rendere efficace, credibile e, alla fine, vincente una proposta simile al Comitato olimpico internazionale, occorre avere alle spalle una forte spinta unitaria di tutto un Paese. A questo proposito, è bene subito chiarire che non si tratta di giustificare le solite, meschine polemiche, a sfondo campanilistico, che si sono puntualmente levate contro una presunta insensibilità, milanese e nordista, di Monti e di alcuni suoi influenti ministri per una scelta che avrebbe favorito Roma. Commenti e sospetti che resuscitano uno sciocchezzaio, mentale e verbale, che davvero hanno ammorbato il recente passato e non vorremmo ammorbassero anche il nostro presente e futuro.
E’ vero, invece, che la promozione olimpica di una città, a maggior ragione se si tratta di una capitale, procura vantaggi economici e d’immagine a tutta una nazione. Così è stato per la Spagna, nel caso di Barcellona e, se guardiamo al caso più vicino, nel tempo e nello spazio, per le Olimpiadi invernali di Torino. Ma nei due esempi citati, sia pure con l’importanza indubbiamente diversa dei due eventi, tutte le opinioni pubbliche nazionali, i «sistemi» dei due Paesi, come si suole dire adesso, avevano manifestato un convinto appoggio e una pronta disponibilità all’impegno organizzativo e finanziario. Per le Olimpiadi romane del 2020, è una constatazione non un’opinione, questo clima di fervore collettivo non è emerso. Si sono avvertiti, invece, un distacco e una certa indifferenza nazionale a una candidatura apparsa, forse, troppo sponsorizzata da lobby locali e subordinata a logiche politiche.
Comprensibile può essere l’amarezza per la perdita di un’occasione di investimento infrastrutturale e, magari, di rilancio d’immagine. Ma gli italiani e anche i mercati internazionali si aspettano, da Monti, molto altro e molto di più che una candidatura olimpica.
La Stampa 15.02.12
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“RESISTERE ALLE SIRENE”, di TITO BOERI
La tragedia greca era iniziata proprio lì, con la candidatura ad ospitare le Olimpiadi. I sovracosti incorsi nella preparazione di Atene 2004 hanno contribuito a quella spirale di deficit pubblici crescenti, mascherati in vario modo per non pregiudicare l´ingresso nell´unione monetaria, che hanno portato alla crisi del debito. Quei giochi olimpici sono costati 12 miliardi di euro, il 6 per cento del Prodotto interno lordo greco. Hanno sì riportato, dopo 108 anni, la fiamma olimpica e i cinque anelli su sfondo bianco nel loro luogo d´origine, ma poi hanno lasciato sul campo i round di negoziati con la troika per evitare un nuovo default dopo quello di 80 anni prima, il quinto della storia greca, con sullo sfondo le fiamme degli incidenti di piazza Sintagma.
Ieri il governo Monti ha voluto tenere conto di questa lezione bloccando la candidatura di Roma per le Olimpiadi del 2020. Come in Grecia quindici anni fa, questa candidatura trovava supporto in studi che predicono forti incrementi del Prodotto interno lordo a seguito dei giochi e che sostengono che non ci sarà alcun deterioramento nei saldi di bilancio. Nel dossier del comitato Roma 2020, come d´incanto, gli 8,2 miliardi di spesa aggiuntiva per l´organizzazione dei giochi e l´allestimento delle infrastrutture dovrebbero essere esattamente coperti dai ricavi legati all´evento e dalle maggiori entrate associate alla crescita del Pil. Dovrebbe, in altre parole, essere un´operazione a saldo zero per le casse dello Stato e a saldo positivo per il Paese, che si ritroverebbe con circa 18 miliardi di reddito e 20.000 posti di lavoro in più. Non pochi in tempi, come questi, di vacche magre.
Peccato che i tempi di progettazione e di appalto delle opere siano da noi lunghi quanto quelli richiesti dall´esecuzione dei lavori. Sono proprio questi ritardi iniziali a fare a loro volta lievitare ulteriormente i costi. È un vero e proprio circolo vizioso quello che si mette in moto: il verificarsi di costi oltre le previsioni rallenta la costruzione e i ritardi di progettazione e costruzione fanno aumentare i costi. Peccato che stime come quelle presentate dal comitato Roma 2020 ignorino il fatto che nella congiuntura attuale ogni aumento del deficit pubblico, pur di breve durata, può far aumentare i costi su tutte le nuove emissioni di titoli di Stato perché rende meno credibile il piano di rientro del debito. Peccato che questi studi ignorino il fatto che anche che il settore privato, dopo Lehman Brothers, è molto più restio a finanziare progetti di questo tipo, come hanno imparato a loro spese i contribuenti inglesi, chiamati a pagare di tasca loro spese per i giochi olimpici e paraolimpici di questa estate, che inizialmente dovevano comportare il “Private Sector Involvement”. Questo “PSI” non c´era stato neanche in Grecia: le infrastrutture e i centri sportivi che dovevano essere venduti al settore privato sono rimaste in mano allo Stato ellenico, che oggi si trova costretto a venderli a un prezzo stracciato, nettamente inferiore a quello di costruzione. Peccato che la Relazione di accompagnamento si limiti a guardare al valore aggiunto legato alle opere in questione senza tenere conto che le stesse risorse potevano essere utilizzate in tanti altri modi alternativi, incluso ridurre le tasse e lasciare quei soldi nelle tasche dei cittadini all´inizio di una recessione.
I precedenti di grandi opere legati ad eventi sportivi in Italia sono tutt´altro che rassicuranti. La competizione c´è soprattutto nello spendere di più. I mondiali del 1990 sono costati quasi sei volte quanto inizialmente preventivato. Anche la storia dell´America´s Cup a Trapani nel 2005, dei Mondiali di sci in Valtellina nello stesso anno, delle Olimpiadi invernali a Torino del 2006 e, infine, dei Mondiali di Ciclismo a Varese nel 2008 è una storia di ritardi, di sovracosti e, in non pochi casi, di corruzione.
In un momento in cui il nostro Paese sta faticosamente cercando di ricostruire la propria credibilità, sapere resistere ai richiami delle sirene dei testimonial popolari e dei politici della capitale e alle pressioni della lobby dei costruttori è un grande segno di serietà. Verrà molto apprezzato da chi decide se comprare i nostri titoli di Stato. In quanto alla mancata crescita, anche se prendessimo per buone le stime del comitato Roma 2020, non illudiamoci che per far ripartire l´economia italiana bastino le fiammate, le spinte, i big push. Noi, come la Grecia, abbiamo un problema strutturale. Non basta trovare qualcosa, un evento, che ci dia una spinta mentre il governo tiene la marcia inserita, come quando si deve far partire un´autovettura che ha la batteria scarica.
Il nostro problema è molto più serio. Dobbiamo cambiare il motore, a partire dalla macchina dello Stato. Questa non sa spendere neanche le risorse che sono già a nostra disposizione, nella programmazione dei fondi strutturali. La grande riforma di questa legislatura doveva essere quella della pubblica amministrazione. Chi l´ha vista? Sono arrivati solo gli annunci, la propaganda, che hanno avuto l´unico risultato di ulteriormente peggiorare l´immagine (e la morale) del dipendente pubblico al cospetto degli italiani. La riforma Brunetta si è dissolta nel nulla anche perché era mal congegnata. Finiva per premiare tutte le amministrazioni, anche quelle inefficienti, e, all´interno di queste, creava comunque divisioni anziché sostenere lo sforzo di gruppo per ottenere risultati migliori. Bisogna cambiare radicalmente l´impianto di quella riforma: premiare solo le amministrazioni efficienti e finire, a pioggia, per premiare anche i singoli che le fanno funzionare. Sarebbe bello se, assieme all´annuncio che Roma non si candiderà per le Olimpiadi 2020, arrivasse nei prossimi giorni anche quello che il governo vuole permetterci di costruire una macchina nuova. Ma dal titolare della Funzione Pubblica sin qui non è arrivato alcun segnale, se non quelli di continuità con la gestione fallimentare del governo precedente.
La Repubblica 15.02.12