Le primarie di Genova hanno segnato una sconfitta per il Pd e le sue candidate. Sconfitta pesante perché Genova è una città simbolo della sinistra, perché si allunga nelle metropoli la lista dei sindaci (e dei candidati) critici o irregolari o competitivi con il partito, perché le primarie, creazione del Pd, diventano notizia solo quando è il Pd a soccombere.
Ma sarebbe un errore se i democratici reagissero alla sconfitta in modo difensivo. Non si può dare tutta la colpa alla divisione interna, né alle regole difettose delle primarie, né al preoccupante calo degli elettori di domenica scorsa. Si tratta di ragioni valide, tuttavia nascondono l’area principale di tensione, di incomprensione tra il Pd e parte del suo elettorato. In quest’area c’è un senso di sfiducia verso i partiti, verso la stessa capacità della politica di incidere in positivo sulla vita delle persone, verso il rinnovamento della rappresentanza. È un senso comune che ha molto a che fare con la lunga egemonia liberista e individualista, ma anche con gli errori delle classi dirigenti e con il drammatico fallimento culturale e istituzionale della Seconda Repubblica.
Nelle primarie di Genova, come in altre, c’è però una domanda di politica assai più forte della reazione antipolitica. Se non altro per la preziosa voglia di partecipazione che viene espressa. E il Pd è nato per dare una risposta nuova alla domanda politica e per farsi ponte verso un diverso sistema. Deve però essere capace di rispondere come «partito»: questa è l’impresa. Si resterebbe nel gorgo della Seconda Repubblica giocando a convocare quel popolo, che invece attende la convocazione nei momenti delle scelte che contano, oppure deve essere capace di costruire un partito più grande e più capace di offrire agli elettori delle primarie una «casa» comune. È il tema di un maggiore radicamento, o se si vuole di una riconciliazione delle idee riformiste con quegli interessi sociali e quelle istanze più radicali che da sempre compongono la politica dei progressisti.
Ma è chiaro che a questo punto il discorso sulla struttura si intreccia con le opzioni strategiche. Come tenere insieme una spinta verso sinistra, che pure a Genova è testimoniata dalla campagna del vincitore Doria, con la politica di sostegno al governo Monti? Finché si parla di un risentimento anti-establishment si può anche fingere di sommare Pisapia con
Renzi, Emiliano con De Magistris. Ma, appena si passa dalla propaganda al merito, non si può più sventolare la bandiera delle primarie di coalizione e al tempo stesso inneggiare al governo dei tecnici come eldorado del Pd. Siccome il Pd è nato per essere un partito nel tempo in cui tutti denigrano i partiti, siccome il Pd è nato per portare l’Italia fuori dalla Seconda Repubblica, la strada da intraprendere ci pare obbligata. È quella di un rapporto più aperto e intenso con il popolo del centrosinistra. Il necessario orizzonte «democratico» non può essere contrapposto ad un radicamento nella sinistra: e le primarie devono diventare lo strumento per fare della coalizione (o gran parte di essa) un partito, non per demolire ciò che è rimasto delle strutture organizzate (su cui peraltro poggiano le primarie).
L’Unità 14.02.12