La prima parola è quella che conta: “Colpevoli”. Ci siamo battuti per avere giustizia e oggi l’abbiamo avuta». Bruno Pesce, il sindacalista della Cgil che per primo diede retta alle denunce dei lavoratori, sta dritto in piedi in mezzo all’Aula e ascolta col nodo in gola l’infinito elenco di persone che il giudice Giuseppe Casalbore sta leggendo. Ci metterà tre ore e un minuto il presidente della Corte a pronunciare i 2900 nomi di chi ha diritto ad essere risarcito, perché ammalato o familiare di una vittima dell’amianto prodotto dalla Eternit.
Romana Blasotti Pavesi, 82 anni, donna simbolo di questa battaglia, rimane in silenzio con lo sguardo perso nel vuoto, è come se li ricordasse tutti, uno ad uno, quelli che se ne sono andati. Tra loro c’erano suo marito Mario, sua sorella, un nipote, un cugino e infine la figlia Maria Rosa. Tutti portati via dal mesotelioma, il tumore dell’amianto per cui non esistono cure.
Questo elenco non è solo un atto di giustizia ma somiglia anche a un omaggio alla memoria e ricorda un altro elenco che viene letto l’11 settembre di ogni anno a Ground Zero. A New York le vittime furono 2752, nei quattro stabilimenti italiani della Eternit sono finora 2300, ma il numero cresce ogni settimana.
Questo elenco infinito di cognomi di ogni regione ci racconta una strage che coinvolge tutto il nostro Paese, non solo Casale Monferrato, ci racconta di figli che hanno pianto la scomparsa del padre prima e della madre dopo (lui pagava la colpa di essere operaio della Eternit, lei di avergli lavato la tuta coperta di polvere ogni sera) e ci racconta di chi continua ad ammalarsi ma in fabbrica non ci è mai entrato.
Perché la sentenza di condanna a 16 anni per disastro doloso pronunciata ieri a Torino contro due dei proprietari della fabbrica Eternit, il magnate svizzero Stephan Schmidheiny e il barone belga Jean Louis De Cartier De Marchienne, non chiude una storia e non può nemmeno archiviare una strage consegnandola finalmente alla memoria: perché la strage continua. Oggi i nuovi casi di mesotelioma sono almeno 50 l’anno, il doppio rispetto a dieci anni fa.
E se l’ultimo funerale che si è svolto 12 giorni fa è stato quello di un operaio, Pierfranco Mazzucco (71 anni, per 30 alla Eternit), quattro giorni prima avevano sepolto Claudia Del Rosso, 56 anni, insegnante di ginnastica, e a metà gennaio lo storico vigile urbano Giovanni Manfredi, due persone che in fabbrica non erano mai entrate.
Perché oggi gli operai rimasti in vita sono soltanto 225 e a morire è chi l’amianto lo ha solo respirato vivendo nella città dell’Eternit. Per questo la condanna piena emessa ieri è per disastro ambientale doloso, un disastro che si estende ben oltre la fabbrica.
Con i resti della lavorazione dell’amianto, distribuiti a piene mani, si faceva di tutto a Casale, dalla ghiaia per i vialetti di casa, alle tettoie ai campi da bocce. Con l’amianto si rappezzava il campo da calcio dell’oratorio, quello dove era cresciuto Sergio Castelletti che sarebbe arrivato a giocare in Nazionale (tra il ’58 e il ’62) per poi ammalarsi e morire otto anni fa di mesotelioma.
Quando nell’estate del 2010 se ne è andata Luisa Minazzi, la direttrice della scuola elementare, una delle più attive nel volere il processo e le bonifiche, all’udienza del lunedì si sono presentati tutti con il lutto al braccio e hanno ripensato alle sue parole: «Mi ricordo – aveva raccontato quando scaricarono il polverino d’amianto nel cortile di casa mia, doveva servire per rendere il terreno perfettamente liscio, e io e gli altri bambini ci tuffammo dentro e cominciammo a rotolarci come fosse una montagna di sabbia». Non sappiamo se ad esserle stato fatale sia stato quel pomeriggio di felicità infantile, ma sappiamo che la malattia è capace di stare in sonno anche più di trent’anni e oggi si ammalano quei bambini che giocavano in mezzo all’amianto o correvano ad abbracciare i padri quando tornavano a casa coperti di polvere.
«E’ sempre la stessa storia – spiega Nicola Pondrano, l’ex operaio che con le sue denunce fece partire la mobilitazione che avrebbe portato alla chiusura della fabbrica -, si parte dai dolori intercostali, poi dalla fatica a respirare, così si fa una lastra e ti dicono che è una pleurite ma ora sappiamo che è il mesotelioma». Anche Nicola ricorda quando sua figlia la sera si divertiva a fargli cadere la polvere bianca dai capelli e oggi ha paura anche per lei.
Per questo una città si è mobilitata. Per questo per ben 83 lunedì le donne e gli uomini dell’Associazione Famigliari Vittime Amianto si sono radunati all’alba in piazza Castello a Casale per salire sui pullman diretti al Palazzo di Giustizia di Torino.
Il sindaco di Casale Giorgio Demezzi nelle scorse settimane è stato al centro delle polemiche per aver preso in considerazione l’offerta di un risarcimento da 18 milioni di euro da uno dei due condannati, lo svizzero Stephan Schmidheiny, in cambio del ritiro della città dal processo. E’ in Aula in mezzo ai suoi concittadini e vuole guardare avanti: «Non potevo non prendere in considerazione un’offerta che ci dava risorse immediate per risposte immediate. Se ho rinunciato è stato certo a causa della mobilitazione di una parte della città ma anche per l’intervento di due ministri, quelli dell’Ambiente e della Salute, che si sono impegnati a darci le risorse per continuare le bonifiche e costruire una nuova discarica, per avere un’indagine epidemiologica, la prevenzione e la ricerca sul mesotelioma pleurico. Ho vissuto il dramma e il travaglio di questa scelta e ora spero che la condanna serva da monito a fermare la produzione di amianto nel resto del mondo».
Ad aspettare la sentenza anche un gruppo di operaie della Sia di Grugliasco, dove con l’amianto fino alla metà degli Anni Ottanta producevano le tute dei pompieri o i teli per coprire l’asse da stiro. Sono tutte malate di asbestosi (una malattia polmonare cronica) e sperano che ora vengano creati centri specializzati dove essere curate: «Stiamo morendo come mosche racconta Alba Tacchino -: il tumore si è portato via dieci colleghe lo scorso anno e due nel 2012, e siamo solo a metà febbraio. Viviamo nella paura e abbiamo bisogno di essere seguite da medici competenti. La scorsa settimana dopo una lastra di controllo mi sono sentita rimproverare perché avevo fumato troppo e allora ho dovuto ricominciare a spiegare che non ho mai acceso una sigaretta ma che ho respirato per vent’anni le fibre d’amianto».
E’ una storia che continua per la necessità di fare le bonifiche ed eliminare i rischi di contagio da ogni angolo d’Italia e per impegnarsi ancora di più nella ricerca di cure. A questo dovrebbero servire i risarcimenti che i condannati dovranno pagare: quasi 100 milioni immediatamente e poi tutti quelli che verranno decisi in sede civile.
Ma dovranno servire anche a restituire uno spicchio di vita a persone come Pietro Condello che per venire in Tribunale si è rimesso la tuta indossata per 15 anni nell’area dove si miscelavano le materie prime: «Nel mio reparto eravamo in 30, oggi siamo rimasti in vita solo in due». Sogna di lasciare Casale e di usare i soldi per trasferirsi a vivere in Liguria, per provare a ricominciare a respirare, nonostante l’invalidità da asbestosi.
Infine le condanne pronunciate ieri, anche se probabilmente nessuno dei due colpevoli entrerà mai in carcere, sono il riconoscimento di una delle più coraggiose e tenaci battaglie per la verità e la giustizia portate avanti in Italia. Una battaglia grazie alla quale si è dimostrato che per anni si è continuato a produrre nonostante fossero chiari i rischi per la vita di un’intera comunità. Ora nessuno potrà più nascondersi dietro l’ignoranza o la manipolazione.
A sottolineare l’importanza del verdetto erano non solo le migliaia di persone che affollavano il Tribunale ma anche la presenza in Aula di tutti i vertici della magistratura piemontese schierati accanto al procuratore Guariniello che ha sostenuto l’accusa.
Gli occhi di tutti fino alla fine si sono concentrati sul volto impassibile di Romana Blasotti Pavesi, seduta tra altre due donne simbolo: Daniela Di Giovanni, l’oncologa che assiste da 25 anni chi si ammala, e Assunta Prato, un’insegnante che, dopo la scomparsa del marito, passa la vita a sensibilizzare i ragazzi.
Ma anche ieri «la Romana», come la chiamano tutti, non è riuscita a piangere, nemmeno quando ha sentito pronunciare i nomi dei suoi familiari, nemmeno quando si è presa la testa tra le mani per la stanchezza. Eppure non aveva chiuso occhio: per la prima volta da più di due anni non sono servite a nulla le due sveglie che puntava ogni lunedì sulle sei per essere sicura di non perdere il pullman per Torino. Quando sono suonate era già in piedi da un pezzo, per essere puntuale all’appuntamento con la Storia, con la sua storia, quella di una donna che è stata capace di trasformare il dolore e la rabbia nel coraggio e di trasmetterlo a un’intera comunità. «Anche se sappiamo che non abbiamo finito di soffrire, è una soddisfazione essere arrivati fin qua e spero che i giovani proseguano la nostra lotta». Stanotte forse avrà avuto anche la libertà di piangere tutti i suoi cari.
La Stampa 14.02.12