Da molti anni si discute dell’opportunità di abolire l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, la norma che consente a un giudice di stabilire il reintegro per il lavoratore licenziato senza giusta causa. Negli ultimi mesi il dibattito è tornato al centro dell’agenda politica e già nella famosa lettera dello scorso agosto, le istituzioni europee, pur non facendo un riferimento diretto allo Statuto, sollecitavano un deciso intervento che rendesse meno rigido il mercato del lavoro in Italia. Il governo Monti sembra oggi orientato a raccogliere concretamente l’invito attraverso l’introduzione di un doppio regime giuridico: mantenimento dell’articolo 18 per tutti coloro che già godono della sua protezione e abolizione per i nuovi assunti. Uno scambio che, nelle intenzioni del governo, dovrebbe favorire la crescita delle assunzioni a tempo indeterminato. È veramente così? Com’è noto la disciplina riguarda soltanto le imprese con più di 15 dipendenti. Pochi sanno, però, che la soglia non si riferisce all’intero organico di un’azienda, ma soltanto a quello delle unità produttive che operano in un singolo Comune. Vale a dire che se un’impresa nel complesso ha più di 15 dipendenti, ripartiti, però, in differenti stabilimenti dislocati in Comuni diversi, è esentata dagli obblighi previsti dallo Statuto. L’articolo18 non impedisce, in assoluto, alle aziende di licenziare. Possono farlo per contingenze economiche,come la mancanza di lavoro, riducendo il personale e mettendo in mobilità i lavoratori. I contratti nazionali di lavoro stabiliscono inoltre che tutti i lavoratori possono essere licenziati per mancanze disciplinari, come, ad esempio, insubordinazione, danneggiamento colposo al materiale dello stabilimento, furto o rissa all’interno del posto di lavoro. Le imprese possono licenziare, senza obbligo di reintegro, anche se i lavoratori svolgono attività per conto proprio o per terzi, se abbandonano il posto o si assentano senza un giustificato motivo per più di 4 giorni. Il licenziamento è previsto sia se un lavoratore è condannato a una pena detentiva, sia per ripetute mancanze disciplinari, anche di minore entità. Non c’è, dunque, un impedimento oggettivo al licenziamento se esiste un motivo valido. A meno che abrogare l’articolo 18 non presupponga l’intenzione di aumentare la competitività delle imprese, facendo leva su una riduzione dei costi di produzione, totalmente a carico dei lavoratori, che senza alcuna tutela si troverebbero costretti ad accettare le condizioni delle imprese per non essere licenziati. O a meno che non si voglia lasciare campo aperto alla possibilità che si diffondano comportamenti che poco hanno a che fare con la qualità della prestazione e molto con l’elusione dei diritti, come quello di scioperare, quelli delle lavoratrici in stato di gravidanza odi chi si ammala, oppure di quelli che pretendono l’effettiva applicazione delle norme di sicurezza sugli impianti. Non dimentichiamo, infatti, che in Italia le morti e gli infortuni sul lavoro restano una piaga inaccettabile ed essere una donna giovane e fertile, ancora oggi, rappresenta un problema nel momento dell’assunzione. Il problema che riguarda i licenziamenti, semmai, è rappresentato dal fatto che i conflitti aprono contenziosi lunghi e incerti, dannosi sia per le imprese sia per i lavoratori, che in alternativa scelgono percorsi extragiudiziari, preferendo entrambi una mediazione al ribasso. Le imprese preferiscono pagare anziché correre rischi e i lavoratori si accontentano di indennizzi sottodimensionati. Una mediazione che allontanagli uni e gli altri dal riconoscimento dei diritti e delle ragioni specifiche. Un problema però che, in questi termini, ha poco a che fare direttamente con l’articolo 18, ma riguarda il funzionamento del sistema giudiziario nel suo complesso. Sottrarre alla disciplina dell’articolo 18 il rapporto tra lavoratori e imprese non risolve il problema, ma abbassa soltanto la linea di galleggiamento dello stato di diritto. L’articolo 18 riguarda, comunque, soltanto il 3% delle imprese che operano in Italia. Imprese che assorbono, però, circa la metà degli occupati nell’industria e nei servizi. Il tema, quindi, interessa soprattutto i lavoratori e solo in misura minore le imprese. Il problema del rapporto tra produzione e lavoro è un altro e riguarda le trasformazioni che, in questi anni, hanno interessato il modo di produrre e la natura stessa delle prestazioni .Dal punto di vista della produzione l’innovazione più significativa è venuta da un nuovo paradigma che ha capovolto la tipica logica del flusso produttivo. La produzione, anziché essere spinta dall’alto, è tirata dal basso. Questo ha determinato profonde ripercussioni nell’organizzazione del mondo del lavoro, ribaltando la logica delle economie di scala e dell’integrazione verticale, tant’è che è progressivamente diminuita la dimensione media dell’impresa per numero di addetti, è aumentata la quota degli occupati nelle imprese minori sul totale e il sistema delle imprese si è andato disponendo articolando in orizzontale. Il passaggio di staffetta è iniziato quando il processo d’integrazione, che per oltre un secolo era stato realizzato all’interno dell’impresa, ha invertito la direzione di marcia, realizzandosi tra le imprese. Ciò ha posto fine alla separazione organizzativa e produttiva, spingendo le imprese minori a organizzarsi localmente come se fossero una sola grande impresa, e quelle maggiori ad articolarsi come se fossero un insieme di piccole realtà. La conseguenza è che a livello macro la lista delle professioni si è allungata e frazionata, senza che si rendesse necessaria una netta ascesa della professionalità media, quanto piuttosto una gamma più estesa di “capacità”, in grado di rispondere all’intreccio fra domande vecchie e nuove. Nel complesso i contenuti sono diventati meno manipolativi e più cognitivi e si è imposto un modo di lavorare scandito daun ritmo teso e da una tensione continua. Non a caso, nel secolo scorso, i sociologi studiavano l’oppressione dovuta alla monotonia e alla ripetitività mentre adesso devono studiare l’ansia generata da variabilità e incertezze. Ieri il sintomo era la noia, oggi la frenesia. Ieri il problema era la rigidità, oggi la flessibilità e la precarietà. Altrettanto profondi sono i movimenti che hanno trasformato i rapporti di lavoro: sono diventati, innanzitutto, meno subordinati e più autonomi, perfino nel lavoro dipendente; meno durevoli, data la crescita dei contratti a tempo determinato e il calo di quelli a tempo indeterminato; meno uniformi giacché l’ambito dei contratti di lavoro è diventato, allo stesso tempo, più circoscritto e più articolato, essendo disposto su orari più corti, durate d’impiego più brevi, o entrambe le cose. Basti citare il lavoro autonomo di seconda e terza generazione, che genera gruppi di lavoratori eterogenei, disciplinati soltanto in modo generico e al cui interno, a parità di mansioni, posso esserci forti differenze retributive. Questo nuovo modo di produrre e lavorare ha, inevitabilmente, indebolito i profili di tutela e le solidarietà fra i lavoratori, dando corpo a un mercato del lavoro dove da una parte si collocano gli stabili e garantiti (in diminuzione) e dall’altra i meno garantiti (in aumento). Se la gabbia entro cui ha funzionato la società del lavoro, dal dopo-guerra alla fine del secolo scorso, era forte e visibile, la ragnatela entro cui si colloca la società dei lavori è fitta e impalpabile, un reticolo di snodi orizzontali, anziché un’intelaiatura di gerarchie verticali. È evidente che, in questo scenario, la modifica dello Statuto dei lavoratori non migliora la competitività delle imprese, sottrae garanzie a una parte dei lavoratori e non aggiunge nulla che metta in equilibrio le nuove esigenze della produzione con i diritti dei lavoratori. Semmai il problema è come dare corpo ai nuovi bisogni di tutela, tutti da delineare e da costruire, all’interno di una rete protettiva e universalistica che garanti
sca il lavoratore nella definizione di una nuova cittadinanza del lavoro. Un approccio esattamente opposto a quello che si sta sviluppando.
*Carlo Buttaroni – PRESIDENTE DI TECNÈ
L’Unità 13.02.12