È una tragedia europea quella che si sta consumando in Grecia. Nel senso che gli insopportabili costi sociali, infilitti ai cittadini, sono il prezzo delle fallimentari politiche dell’Unione all’insegna del rigore senza crescita. Cambiare rotta è una necessità vitale. L’Italia può essere un fattore di cambiamento. E il successo di Monti a Washington non è estraneo a questa aspettativa, oggi condivisa da Obama.
Il governo dei tecnici è nato con una duplice missione: affrontare l’emergenza economica e restituire al Paese quel profilo europeista che, prima di essere la sua vocazione, è il suo interesse strategico. Si tratta di obiettivi tra loro connessi.
Perché l’Italia non si salverà facendo i «compiti a casa». Si salverà solo con l’Europa, se l’Europa deciderà di giocare come entità unitaria la partita della governance globale. Ciò non vuol dire che i «compiti» non vanno fatti. Per i Paesi più indebitati la serietà dei comportamenti e la capacità di tenere le redini
del bilancio è una credenziale importante presso le opinioni pubbliche esterne. Ma fare i «compiti» non può voler dire convalidare e perpetuare le politiche che hannospinto l’Europa verso la depressione e gli squilibri crescenti. L’Europa, guidata dal centrodestra e innanzitutto dalla cancelliera Merkel, sta curando la crisi con le stesse medicine che da almeno due decenni vengono somministrate a chiunque produca deficit: riduzione dei salari e dei diritti del lavoro, tagli alle pensioni e alla spesa sociale, privatizzazioni, flessibilità, compressione degli investimenti. Non che spendere in deficit sia di per sè progressista. Anzi, può essere un indice di diseguaglianza, scaricando i costi sulle generazioni successive. Investire, tuttavia, è necessario se non si vuole consegnare ai giovani una società in declino, senza leve su cui poggiare una ripartenza. Forse bisognerebbe recuperare con più coraggio la lezione di Keynes, visto che il liberismo egemone non è stato affatto detronizzato nonostante ci abbia sprofondato nella crisi.
L’Italia non è la Grecia. L’Italia è troppo grande per fallire. Ma è anche troppo grande per essere salvata. La Grecia resta uno spettro in Europa. Innanzitutto per la sofferenza dei ceti più deboli e delle classi medie ridotte sul lastrico. Due anni fa sarebbero bastati 40 miliardi di euro per «ristrutturare» il debito greco (eufemismo per indicare il default controllato). Oggi il costo per tutti i Paesi dell’Unione è moltiplicato. E già abbiamo pagato dieci, cento volte ciò non si è voluto dare per tempo. Intanto però lo squilibrio della bilancia dei pagamenti (il vero fattore di crisi dell’Europa: altro che il debito pubblico!) è aumentato, e in primo luogo la Germania ha visto crescere la propria posizione a discapito dei Paesi mediterranei. Senza un’integrazione politica dell’Unione, che operi in direzione di un riequilibrio economico, commerciale, e anche infrastrutturale, non ci sarà salvezza per l’Europa e per l’euro. Non basterà neppure la nuova politica monetaria, opportunamente adottata da Draghi alla Bce per assicurare maggiore liquidità al sistema.
La calorosa accoglienza di Monti da parte di Obama, dunque, non va letta soltanto come un incoraggiamento dopo la fine del ciclo berlusconiano. È anche un messaggio all’Europa. L’Italia è uno dei Paesi fondatori e ha interesse a spingere per un mutamento di equilibri e di strategie. Ma pure gli Stati Uniti vogliono che l’Europa torni a crescere ed esca dalla spirale austerità-depressione. Se il mercato europeo non darà segni positivi, la stessa ripresa americana si indebolirà e il «new deal» di Obama rischierà il naufragio. Monti è consapevole di questo ruolo. Ma anche dei limiti che penalizzano il nostro Paese. L’impresa sarà possibile solo se cambieranno i paradigmi dell’ultimo ventennio, a cominciare dai fattori che hanno prodotto l’aumento della forbice tra ricchezza e povertà e il rafforzamento dei poteri di alcune oligarchie economiche. L’impresa ha bisogno di un nuovo «patto sociale». E il premier commetterebbe un tragico errore se, in nome di un obiettivo imposto dall’esterno sulla base della vecchia ortodossia, sacrificasse oggi la convergenza delle forze sindacali e sociali. La trattativa sul mercato del lavoro, in questo senso, ha un valore simbolico. Siccome è chiaro a tutti che modificare l’articolo 18 non vale assolutamente nulla in termini di competitività del Paese o di attrazione degli investimenti o di fiducia per le imprese, il governo deve tenersi strette le parti sociale, richiamarle alla responsabilità e costruire con loro un’intesa. Come fece Ciampi nel ’93. Il patto vale più dello stesso risultato. Proprio perché il voto finale per l’Italia non verrà dai «compiti a casa» ma dalla capacità di spingere l’Europa verso una nuova politica.
E c’è ancora una questione cruciale, che ha anch’essa un peso materiale assai superiore all’articolo 18 e che invece viene colpevolmente trascurata: la lotta alla criminalità organizzata e alle aree grigie, che segnano la contiguità tra funzioni pubbliche e mercato. La lotta senza quartiere alle mafie è, questo sì, il compito a casa che il governo deve svolgere al meglio per favorire investimenti e sviluppo al Sud, e dunque crescita del Pil nell’intero Paese. Il «patto sociale» cominci da qui.E da quella proposta che l’imprenditore Antonello Montante ha lanciato dalle colonne de l’Unità: un’intesa tra istituzioni, banche, parti sociali per consentire un «rating» migliore alle imprese che si ribellano ai clan e si attengono rigorosamente ai protocolli di legalità. Un rating per un migliore accesso al credito, in modo che combattere la mafia diventi anche sul mercatoun vantaggio, e non un rischio o una penalizzazione
L’Unità 12.02.12