Va bene i taxi e i panettieri. Ma quelli che producono idee? Gli insegnanti universitari? Vogliamo estendere anche a loro liberalizzazioni e regime di concorrenza? Uno se l’aspetterebbe dal governo dei professori. Che l’accademia italiana non sia il regno dell’efficienza e ancora meno il territorio sul quale si confrontano ed emergono le energie migliori e più capaci è un assunto, quando si descrive l’Italia: baronie, nepotismo, fuga dei migliori. Una buona dose di concorrenza tra docenti e ricercatori, dunque, sarebbe probabilmente benvenuta nell’università, tanto nelle facoltà scientifiche che in quelle umanistiche: una cura anglosassone per rompere incrostazioni e inerzie, magari per cercare di frenare il declino — interno e internazionale — dell’istruzione di alto livello italiana. Già, ma come?
Francesco Magris, economista ordinario all’università di Tours, ha appena pubblicato un libro — La concorrenza nella ricerca scientifica, edito da Bompiani, (pagine 92, 9,90) — nel quale mette in guardia dai falsi miti, in questo campo. Un pamphlet che denuncia la cattiva condizione della maggioranza degli atenei italiani, ma allo stesso tempo invita a guardarsi dall’accettare a scatola chiusa i modelli prevalenti a livello internazionale.
Pur ritenendo il mercato del lavoro diverso dal mercato delle merci, Francesco Magris non è affatto contrario all’introduzione della concorrenza quando si tratta di giudicare la qualità dei lavori scientifici e quindi di premiare, in termini di carriera, professori e ricercatori. Il problema sta nel come, nello stabilire quale sia il modo più corretto e più efficiente per farlo: soprattutto quale sia il modo migliore per non premiare solo chi effettua ricerca nei filoni dominanti della scienza e delle materie umanistiche, ma anche chi va controcorrente.
Buona parte dell’analisi e della critica del libro si focalizzano sul sistema delle «citazioni», di gran lunga prevalente nel circuito accademico internazionale. Si tratta del modo più utilizzato per valutare la performance di un insegnante, di un ricercatore, di uno scienziato, di un economista: misurare quante volte i suoi lavori sono citati nelle riviste scientifiche di riferimento. Chi è più citato — oltre a chi pubblica i lavori più rilevanti — e chi appare spesso nelle riviste considerate di maggiore prestigio migliora il proprio status in termini di reputazione, di carriera, di salario: non solo nel caso degli scienziati e degli economisti che negli ultimi tempi hanno seguito la traiettoria di successo un tempo riservata alle rockstar, ma in generale come metodo di valutazione e premio nell’intero universo della produzione delle idee e delle scoperte. La citazione, insomma, è diventata — secondo Magris — una sorta di valuta, anzi il dollaro attraverso il quale si stabiliscono gerarchie e, alla fine, imperi accademici.
È, questo delle citazioni, il modo migliore per introdurre una forma di mercato e di concorrenza efficienti nel settore? Francesco Magris ne dubita, o almeno mette in guardia dal considerarlo un sistema indiscutibile. Da una parte, esso è un incentivo a premiare i lavori di più immediata fruizione, quelli che hanno più mercato nelle riviste scientifiche. A scapito di ricerche e studi meno sexy, ma magari più profondi e di maggiore portata. La necessità di accumulare citazioni, inoltre, penalizza chi svolge lavori complessi che richiedono tempi lunghi prima di potere essere pubblicati. Il tutto all’interno di «un modello autoreferenziale di selezione» nel quale spesso riviste «amiche» si scambiano citazioni e nel quale, soprattutto, non c’è distinzione tra chi produce ricerca e chi la consuma, nel quale chi giudica è quasi sempre collega di chi ha prodotto la ricerca: «Fondere le due categorie in una sola — scrive Magris — conduce alla negazione del sistema di mercato».
Dall’altra parte, per ragioni storiche ed economiche, questo sistema di valutazioni internazionali è dominato dalle riviste anglosassoni, le quali sono molto spesso collegate alle università americane (e in una certa misura anche a quelle britanniche), nonché ai loro docenti e anche alle lobby che le finanziano. Una situazione che, «anziché promuovere la differenziazione del prodotto conduce al consolidamento del pensiero dominante e all’indebolimento del pluralismo»: dunque scuole di pensiero decentrate e minoritarie hanno, in questa cornice, meno possibilità di emergere.
Francesco Magris non propone «commissari del popolo» per stabilire la qualità della ricerca. Ma se si vuole il mercato e la concorrenza — dice in sostanza — occorre che il sistema sia davvero aperto ed efficiente. Come per i panettieri, si può dire.
Il Corriere della Sera 11.02.12