Il viaggio di Mario Monti in Usa è andato bene. Forse troppo bene.
C’è stato infatti un innegabile elemento di esagerazione nell’accoglienza americana al premier italiano, e se alcune reticenze nel discorso pubblico e una serie di sorrisi di imbarazzo valgono una dichiarazione, lo stesso premier sembra essersene accorto.
Mario Monti guida il governo da soli tre mesi, ha fatto un forte intervento sulla strada verso il pareggio del bilancio accompagnato dalla riforma delle pensioni («e solo con tre ore di sciopero» ha raccontato di aver detto ai suoi interlocutori alla Casa Bianca, ascoltato «con grande meraviglia»).
Per quanto riguarda le altre riforme, che sia quella del mercato del lavoro (tema molto comprensibile agli americani) o quella (molto più sottile per questo pubblico) della modifica dei rapporti fra Merkel e l’Italia, sono ancora tutte da provare.
La domanda da porsi è dunque cosa stiano cercando di dirci gli americani con questo inedito sfoggio di entusiasmo.
La più maliziosa interpretazione è che il nuovo clima ha a che fare con il passaggio di governo in Italia – e non c’è dubbio che la differenza fra le impacciate relazioni di Washington con Silvio Berlusconi negli ultimi anni, e quelle di oggi con Mario Monti, è inenarrabile. In effetti ha dell’incredibile che il passato governo non sia mai stato citato in questi incontri, e che l’unico a pronunciare il nome di Silvio Berlusconi (come al solito per dirne bene, nella ormai assodata routine istituzionale della continuità formale fra esecutivi) sia stato proprio Monti. Tuttavia l’America, presa da tali e tanti problemi complessi, non avrebbe sprecato molta energia in questo momento solo per sottolineare diversi toni diplomatici.
La chiave di volta della sua ospitalità è iscritta in realtà nelle novità segnalate dalla agenda del premier in questi giorni. A differenza di quanto sempre avvenuto con altri premier in passato, Monti in effetti ha speso molto meno tempo con le istituzioni politiche – Congresso, governo, Onu –, per investire la maggior parte delle energie nel comunicare direttamente con altri luoghi del potere, think tank come il Peterson, i maggiori media, come la Cnbc di Maria Bartiromo, il Time, il New York Times, e gli investitori di Wall Street, che hanno la capacità di influenzare direttamente le opinioni più vaste del mercato. Non è un caso che il più lungo incontro «politico» sia stato delegato al ministro degli Esteri Terzi che ha trascorso con Hillary Clinton più tempo di quanto Monti con Obama. Così come non un caso è che per ricevere il professore italiano a New York siano scesi in campo i big della finanza, da Bloomberg a Soros.
La vera missione di Mario Monti in America, detta in maniera un po’ poco caritatevole, è stata fin dall’inizio dunque quella di «venditore», di un uomo che alla fin fine era lì per convincere della nostra affidabilità quegli stessi mercati che ci avevano condannato.
Si spiega così anche l’entusiasmo profuso nel far sì che la missione riuscisse: un po’ di esagerazione ci voleva per far ben capire a tutti che i vari punti di influenza del potere americano, media, politica e investitori, ci hanno riaccettato. Quell’«Italy is back», in questo senso è risuonato in effetti nelle orecchie tanto entusiasta quanto accondiscendente nei nostri confronti. Ma è stata anche l’eco di una sorta di autocritica del Paese più arrogante del mondo.
«L’Europa è un terreno scivoloso per gli americani, specie in questa campagna elettorale. Se non si fosse visto un miglioramento, non credo che Obama si sarebbe tanto impegnato», diceva alcune sere fa un insider di Washington, un avvocato che lavora per le industrie della difesa. Con tipico spirito pragmatico, i mercati e la politica Usa hanno fatto negli ultimi tempi una rapida marcia indietro, dopo aver capito che per l’America dei prossimi anni l’Europa è ancora più un beneficio che una palla al piede, come la si descriveva nei momenti peggiori della crisi.
Non solo, come viene ripetuto, la miniripresa americana potrebbe essere affossata da qualunque peggioramento dell’economia della Eu. L’Europa si rivela molto importante in prospettiva anche nell’intreccio fra costi e sicurezza dell’Impero.
La crisi economica sta portando gli Usa a una rimodulazione delle spese militari. I (meno) soldi saranno sempre più impegnati da Washington nei teatri asiatici, per tenere d’occhio i contendenti di domani, Cina soprattutto.
La conseguenza è che il peso della sorveglianza sulla Russia (testate nucleari incluse) e la gestione del Medioriente ricadrà sempre più sull’Europa: il modello Libia – quello in cui la Nato opera e gli Stati Uniti appoggiano – è il modello che gli Usa oggi vedrebbero esteso a tutta la zona di influenza europea. Per questo molto si è parlato fra Monti e Obama della conferenza sulla nuova Nato che si terrà a maggio a Chicago. Molto ne hanno parlato, e poco ce ne è stato riferito. Il terreno è infatti scottante per le opinioni pubbliche europee.
La lezione che si trae da tutto questo, è che l’entusiasmo Usa è come un venticello – capace di cambiare rapidamente direzione a seconda delle necessità (o utilità?) del Paese. Ha soffiato molto bene, sulla visita di Monti ma non dovremmo farci molto affidamento. Anche perché, come dimostra il dossier Nato, porta sicuramente con sé un cartellino con il solito salato prezzo.
La Stampa 11.02.12