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“Come aprire le porte del mercato del lavoro”, di Tito Boeri

Accade talvolta che in una trattativa difficile si possa perdere la bussola, immersi come si è nella faticosa ricerca di un compromesso. Così si perde di vista l´obiettivo principale. La riforma del mercato del lavoro di cui il Paese ha bisogno deve servire a rilanciare la crescita. Questo significa aumentare la produttività del lavoro e impedire che il dualismo del nostro mercato del lavoro continui ad emarginare coloro che hanno maggiori possibilità di contribuire a generare reddito e occupazione. Bisogna farla in fretta questa riforma non solo perché non vogliamo deludere mercati che stanno faticosamente tornando a credere in noi (ieri lo spread fra Italia e Spagna, la misura vera della nostra credibilità, è tornato sotto i 30 punti base), ma anche per evitare che la recessione alle porte colpisca i soliti noti: i lavoratori con partita iva, contratti a progetto, i falsi associati in partecipazione e chi ha contratti a tempo determinato. Eppure negli ultimi giorni abbiamo avuto ripetuti segnali di una trattativa che evolve in una direzione diversa, talvolta ortogonale a questa. Dapprima abbiamo assistito a una serie abbastanza sconcertante di dichiarazioni di esponenti del governo che hanno voluto sminuire il richiamo del posto fisso per i giovani. Come se il problema fosse quello di convincere i giovani che i contratti temporanei sono meglio di quelli a tempo indeterminato e non, invece, di offrire loro finalmente copertura assicurativa, formazione sul posto di lavoro e condizioni contrattuali e retributive pari a quelle degli altri lavoratori dipendenti. Si sono poi susseguite le anticipazioni sui contenuti del negoziato. A quanto pare, si tratta su riforme della Cassa Integrazione e sull´estensione delle procedure dei licenziamenti collettivi ai licenziamenti individuali. Intendiamoci, si tratta di operazioni importanti. Dobbiamo migliorare il funzionamento della nostra Cassa Integrazione, superando quella in deroga e facendo pagare, dunque responsabilizzando, quelle imprese che continuano ad accedervi senza versare contributi. Dobbiamo anche spingere perché non si arrivi mai alle zero ore, ma il lavoratore cassintegrato continui a mantenere davvero un piede e non solo formalmente il cedolino in azienda. È parimenti importante ridurre la discrezionalità dei giudici nelle procedure di licenziamento, anche perché hanno ampiamente mostrato di agire in modo poco obiettivo e con tempi troppo lunghi. Meglio sarebbe evitare di sostituire questa discrezionalità dei giudici con quella del sindacato, come avviene oggi nei licenziamenti collettivi. Anche perché è davvero difficile pensare a un sindacato che sceglie, assieme al datore di lavoro, la persona da licenziare per permettere all´impresa di aumentare i profitti. E se si vogliono cambiare le regole sui licenziamenti, meglio farlo a partire dai nuovi assunti. Non è un bene rendere i licenziamenti più facili per chi ha già un posto stabile durante una recessione. Non è proprio il momento giusto per farlo.
Il problema principale è che tutti questi tavoli in corso tralasciano il problema più importante, quello dell´ingresso nel mercato del lavoro. Riformando gli ammortizzatori oggi non si riesce a proteggere chi ha formalmente rapporti di lavoro autonomo. Per proteggerli dobbiamo trasformare il parasubordinato in rapporti di lavoro anche formalmente alle dipendenze. Il datore di lavoro che vorrà continuare in questa finzione sarà costretto a pagare quelli che sono di fatto suoi dipendenti molto di più. La Cassa Integrazione non riguarda i lavoratori temporanei in scadenza di contratto. Men che meno li riguarda la cosiddetta “manutenzione” dell´articolo 18. Potrebbe tra l´altro ritorcersi contro di loro. Le procedure per i licenziamenti collettivi oggi richiedono che il datore di lavoro stabilisca espressamente i criteri in base ai quali ha scelto chi deve essere licenziato. Tra questi criteri occupa un posto centrale l´anzianità. Ora che non è più possibile permettere al lavoratore licenziato l´accesso ai pensionamenti anticipati, il rischio è che questa procedura spinga imprese e sindacati ad accordarsi per licenziare sistematicamente i lavoratori più giovani.
Non basterà per risolvere il problema del dualismo espandere il contratto di apprendistato. È fatto per numeri piccoli, non per i milioni di lavoratori precari. E costa troppo per le casse dello Stato perché implica la rinuncia ad entrate contributive. Difficile, inoltre, pensare di proporre un contratto di apprendistato a un cinquantenne in cerca di lavoro. Per incentivare la formazione basta allungare la durata dei contratti spingendo le imprese ad assumere fin da subito con contratti a tempo indeterminato. Non serve neanche disboscare i contratti atipici togliendo di mezzo qualche figura contrattuale che già oggi è del tutto marginale nel nostro mercato, come lo staff leasing o il job on call. Per favorire le assunzioni con contratti fin da subito a tempo indeterminato non servono gli incentivi fiscali. Basta offrire costi certi, crescenti nel tempo, per licenziamenti individuali, sia economici che disciplinari, ai nuovi assunti, a tutte le età. Essenziale, infine, fare in fretta, non pensare a due o tre fasi per le riforme. Durante i periodi di incertezza normativa le imprese ritardano le assunzioni, aspettando di vedere cosa succede. È un costo che davvero non possiamo permetterci alle porte di una recessione. E poi c´è l´apprensione delle famiglie e dei lavoratori coinvolti. A proposito: si narra sui giornali, a titolo di esempio, di riforme che permettono finalmente di licenziare singoli portinai per ragioni economiche senza incorrere nell´articolo 18. Vorremmo rassicurare la categoria e tutti gli italiani. I portinai d´Italia, tranne forse quelli di Montecitorio, come tutti i lavoratori di imprese con meno di 15 dipendenti, non sono coperti dall´articolo 18. Dunque quella “manutenzione”, per quanto ardita possa essere, proprio non li riguarda.

La Repubblica 10.02.12