Il governo Monti ha svolto più che egregiamente i compiti a casa. Ha ridato credibilità e centralità all’Italia. Ha fatto del nostro Paese un interlocutore autorevole dell’Europa (e degli Stati Uniti, come ha confermato sul Corriere l’ambasciatore Usa a Roma). Ha avviato una politica economica dolorosa ma efficace, rimesso sui binari i conti impazziti, allontanato il fantasma del fallimento. Ma basta? Forse, a costo di apparire incontentabili, non basta. Perché gli incoraggianti risultati sui conti sembrano un po’ più opachi, se dalle formule matematiche si passa alla vita vera degli italiani, alle emozioni e ai simboli che ne cementano la coesione.
È vero, un governo tecnico non ha come obiettivo il consenso. Ma la prospettiva di un destino comune è pur sempre la missione di un governo che, oltre all’autorevolezza e alla competenza, deve saper trasmettere agli italiani fiducia, forza, energia in uno dei momenti più difficili della loro storia. Se il naufragio di una nave colpisce l’immaginazione pubblica e ferisce come un’umiliazione l’intera compagine nazionale per la sconsideratezza di comandanti fatui e tremebondi, un governo sensibile al bene comune deve esserci, deve dire qualcosa, deve essere presente. Se l’Italia, sommersa dalla neve, conta decine di morti, paesi senza energia elettrica, treni bloccati nel gelo, Roma tramortita dal caos, autostrade paralizzate, il governo, anche se tecnico, non può rifugiarsi dietro un’impassibile tecnicità, deve dare l’impressione di voler tirar fuori l’Italia dal disastro, sanzionare gli incapaci, dare una sferzata all’opera di chi si spende senza requie per soccorrere chi è in difficoltà. «Populista» sarà pure una brutta parola, una tentazione troppo invasiva nella nostra storia più recente. Ma i pericoli del populismo non devono impedire a un governo di essere popolare, di entrare in un rapporto di sintonia, di connessione emotiva, di compartecipazione con le sorti del «popolo» genericamente inteso. Non è obbligatorio essere simpatici, ma nemmeno perdersi in dichiarazioni inutilmente antipatiche. Bisogna dire la verità, ma non è che per evitare il rischio della demagogia bisogna mostrarsi indifferenti alle passioni della democrazia. Andare in una fabbrica in difficoltà, affrontare una delle piazze pulite in cui si esprime un malcontento diffuso, visitare un’università del Mezzogiorno per parlare con gli studenti di talento ma senza futuro, un convegno di liberi professionisti che si sentono penalizzati da misure dure e per loro drammatiche, persino sfidare in un confronto pubblico chi è vittima della crisi, darebbe a questo governo una forza simbolica straordinaria.
Nessuna nostalgia dell’esibizionismo festaiolo, ma l’atmosfera dei centri studi che hanno sfornato un consesso di ministri tra i più preparati e affidabili della nostra storia non può essere l’unico orizzonte emotivo, culturale, persino lessicale di chi sta chiedendo agli italiani di «fare compiti» difficili e gravosi. In un’atmosfera di angoscia che non può lasciare sordo anche il più tecnico ed efficace dei governi. Che ha reso miracolosamente credibile l’Italia nel mondo, ma che comunichi agli italiani un nuovo orgoglio. Missione impervia, ma non impossibile.
Il Corriere della Sera 09.02.12
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“Più realismo che ottimismo sul cammino difficile delle riforme”, di Stefano Folli
A proposito di riforme e di “dialogo” fra i partiti, gli ottimisti si sono già pronunciati e hanno speso ottimi argomenti per salutare il disgelo fra Pdl e Pd. In sostanza, però, l’enfasi è servita a salutare la scelta di un metodo (sempre meglio della non-comunicabilità precedente) e alcune intese di principio.
Ad esempio, è chiaro che non si potrà tornare al voto con la pretesa delle segreterie di compilare la lista dei candidati destinati a sicura elezione: come nel 2006 e nel 2008. Né si potrà ignorare che il paese si attende un tentativo, almeno un serio tentativo, di ridurre il numero dei parlamentari: 630 deputati e 315 senatori oggi sono eccessivi per il sentimento collettivo. Ma che si riesca davvero a rimaneggiarli con legge costituzionale prima della fine della legislatura, è tutt’altra questione. Per crederlo ci vuole una dose supplementare di ottimismo.
In ogni caso, per ora siamo a questo: accordi di principio per trasmettere all’opinione pubblica il senso di una classe politica desiderosa di recuperare credibilità e impegnata ad auto-riformarsi. Non c’è molto di più. Il resto del percorso – in Parlamento e fuori – non sarà più facile, ma assai più difficile. Il che, s’intende, non toglie valore all’obiettivo finale, il rinnovamento del sistema e dei suoi assetti. Ma è bene essere realisti.
La prova l’abbiamo avuta ieri nella conferenza dei capigruppo al Senato. Dopo tanti buoni propositi, è bastato scendere sul terreno delle decisioni concrete per scoprire quanto sono numerose le riserve mentali. Il centrodestra vuole incardinare le riforme istituzionali (bicameralismo, numero dei parlamentari, eccetera) prima e non dopo la legge elettorale. Il centrosinistra e anche i centristi vogliono l’opposto.
È un ostacolo insormontabile? In situazioni normali non lo sarebbe. Si tratta di schermaglie abbastanza normali che vengono superate se esiste una volontà politica forte e determinata. Dunque la vera domanda è: esiste questa volontà nel circuito Alfano-Bersani-Casini? E soprattutto, esiste in Silvio Berlusconi? Il quesito al momento non trova una risposta certa. Abbiamo assistito all’apertura di un dialogo, ma nessuno ha spiegato con chiarezza quale Italia si vuole costruire in vista delle elezioni del 2013. Un impianto politico più o meno bipolare di quello che oggi si è arreso al governo tecnico? Al momento si cerca di ottenere un doppio risultato, venato peraltro di notevoli contraddizioni: un modello che premia i due maggiori partiti, ma al tempo stesso non umilia e anzi concede un ragionevole spazio agli altri soggetti intermedi (Lega, terzo polo, area Vendola-Di Pietro). Un proporzionale corretto, reso più solido dall’indicazione del premier e dall’istituto della sfiducia costruttiva. Aspetto, quest’ultimo, che proietta il dibattito sul terreno scivoloso delle modifiche costituzionali.
Tutto si può e anzi si deve fare, ma ci vuole una grande coesione politica. Che al momento è tutta da verificare. Se Pdl, Pd e terzo polo fossero davvero decisi, avrebbero i numeri e i mezzi per procedere di buona lena. Tuttavia dovrebbero disinteressarsi del destino della Lega, da un lato, e del binomio Vendola-Di Pietro, dall’altro. Prima di dare per scontato un tale esito, aspettiamo almeno la primavera. Il disgelo con la temperatura sotto zero non è garantito.
Il Sole 24 Ore 09.02.12