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“L’Italia unita divisa dalla scuola”, di Gian Antonio Stella

«A i figli regalategli un lager», fu il titolo del Foglio a un articolo scritto da Amy Chua su The Wall Street Journal per spiegare perché lei e le altre mamme cinesi sono certe che «si deve essere durissimi con i pargoli: “Per imparare bisogna soffrire”». Spiegava la signora che «quando i genitori occidentali pensano di essere rigorosi, di solito non si avvicinano nemmeno alle mamme cinesi. Ad esempio, i miei amici occidentali che si considerano severi fanno esercitare i figli sui loro strumenti musicali 30 minuti al giorno. Un’ora al massimo. Per una madre cinese, la prima ora è la parte facile. Sono la seconda e la terza ora quelle difficili». C’è chi dirà che è una follia: tirato su a bacchettate quel figlio sarà poi sereno, equilibrato, creativo? La discussione è aperta. Ma un punto appare sicuro: i genitori orientali sembrano più decisi di noi a incidere sull’educazione dei figli nel quotidiano affiancamento alla scuola.
Lo confermano un paio di dati presi da L’Italia che va a scuola (Laterza), un libro in cui Salvo Intravaia, professore in un liceo palermitano e collaboratore di Repubblica, fotografa un mondo che tocca un italiano su quattro che «ogni mattina si alza per recarsi a scuola: gli alunni per studiare, i genitori per accompagnare i figli, e il personale — docente e non docente — per lavorare».
Scrive dunque l’autore che di anno in anno, a partire dal ‘90, le elezioni per i consigli di classe vedono l’affluenza calare, calare, calare. Fino a scendere in certi casi, come per le «superiori» in Sardegna, sotto il 4 per cento. Certo, il distacco non può avere come unica unità di misura la sfiducia in un organismo che evidentemente ha deluso. Ma anche questa è una conferma di una cosa che maestri e professori assaggiano tutti i giorni: i genitori italiani, pronti a scatenare l’iradiddio se i figlioli portano a casa un brutto voto, sono generalmente distratti.
Se non lo fossero potrebbero mai accettare certe storture denunciate da Intravaia? Manderebbero sereni i figli a scuola sapendo che il 92 per cento (dato Cittadinanzattiva) o il 93 (dato Legambiente) delle scuole costruite prima del 1990, tre su quattro, necessiterebbero d’urgenti interventi? Accetterebbero i tagli sapendo che l’Italia spende per l’istruzione il 6,7 per cento del Pil contro il 7,9 della Finlandia, l’8,7 del Regno Unito, l’8,9% della Danimarca, il 10,3 dell’Irlanda?
Vale soprattutto per i genitori del Sud, che alla faccia dello stereotipo sui mammoni, sono i più assenti: come possono accettare certi squilibri? Complessivamente «tra le diverse Regioni italiane si presentano grosse differenze. Al Nord la spesa media per alunno nel 2009 è stata pari a 1.461 euro. Una cifra leggermente più bassa, 1.387 euro ad alunno, si spende nelle quattro Regioni centrali. Ma quando si passa a quelle meridionali (…) l’investimento precipita a 716 euro per alunno». È accettabile, 150 anni dopo l’Unità?

Il Corriere della Sera 08.02.12