Non bastava l’emergenza finanziaria, ora ci si mette anche il Generale Inverno. L’economia italiana, già metaforicamente gelata da una caduta produttiva – sensibilmente superiore a quella degli altri paesi avanzati – è andata, anche da un punto di vista fisico, duramente sotto zero. I Tir che qualche settimana fa rimanevano fermi per l’agitazione degli autotrasportatori sono adesso bloccati dal ghiaccio; le derrate alimentari che prima marcivano sugli autotreni fermi ai posti di blocco, ora non vengono ritirati dagli stessi autotreni bloccati dalla neve.
In aggiunta al maltempo, i problemi energetici che ci sono letteralmente cascati addosso negli ultimi dieci giorni, completano il cerchio. Dal momento che l’anno lavorativo delle industrie è di poco più di 200 giorni, ogni giorno di produzione industriale completamente perduta varrebbe all’incirca lo 0,5. L’arresto completo per tre giorni delle industrie per mancanza di combustibile – un’eventualità molto remota, quasi un’ipotesi scolastica, utile comunque a fissare le idee e le dimensioni del problema porterebbe così a una caduta dell’1,5 per cento della produzione industriale dell’intero 2012 introducendo un nuovo stimolo negativo.
Tra blocchi dei Tir e maltempo, in ogni modo, il primo trimestre del 2012 mostrerà un segno negativo superiore alle previsioni di qualche settimana fa e un’economia con prodotto in diminuzione paga minori imposte. La caduta della colonnina del termometro potrebbe così riflettersi sull’indice delle Borse e sulla finanza pubblica.
L’Italia, si scopre nuda non solo per il freddo eccezionale – e, in un certo senso, difficile da prevedere in una cultura dominata dalla convinzione semplicistica che il «riscaldamento globale» significhi che ogni anno farà progressivamente più caldo – ma anche per le tre vulnerabilità che la diminuzione delle forniture internazionali di gas stanno mettendo in luce: la rapidità e la mancanza di preavviso con cui si è manifestata l’emergenza energetica, la debolezza del controllo effettivo, a tutti i livelli, delle autorità competenti, la relativa opacità delle procedure unita alla discontinuità dell’informazione.
La rapidità con cui il problema energetico è apparso all’orizzonte è naturalmente sotto gli occhi di tutti: in quattro-cinque giorni siamo passati dalle immagini-cartolina di Roma paralizzata dalla neve alle prospettive più preoccupanti di treni fermi e ciminiere spente, dall’idea di un fine settimana anomalo a quella di un freddo senza fine. Tutto questo ci è caduto addosso all’improvviso, a seguito di una riduzione – di entità notevole ma non catastrofica – delle forniture di gas in arrivo dalla Russia, mostrando che il sistema energetico italiano è, di fatto, molto carente in elasticità. Il che significa che siamo vissuti a lungo nell’anticamera dell’emergenza energetica senza saperlo veramente, o senza esserne informati.
Sulla debolezza del controllo è inutile soffermarsi se non per ricordare che i due-tre anni di tagli ai bilanci degli enti locali hanno quasi inevitabilmente portato alla diminuzione degli spartineve e perfino del sale da spargere sulle strade con i risultati che sono sotto gli occhi di tutti. L’opacità deriva infine dal fatto che è difficile trovare risposte a domande fondamentali: a termini di contratto, i russi possono davvero ridurre senza preavviso il flusso di gas? Quale ruolo ha l’Ucraina, che in passato ha operato prelievi non autorizzati dai gasdotti che attraversano il suo territorio per arrivare in Italia, nell’improvviso aggravamento della crisi? Quanto incide sull’attuale scarsità energetica la situazione creatasi in Libia dopo Gheddafi con forniture che probabilmente non sono a pieno regime? Su tutti questi punti l’informazione è scarsa, discontinua, lacunosa, comunque insoddisfacente.
La crisi del freddo ha poi provocato una crisi di funzionamento delle istituzioni. Lo dimostra il caso della Protezione Civile che, a detta del suo stesso capo «non è più operativa». Il suo collasso segna la fine del tentativo, durato circa un ventennio, di dotare il Paese di un organismo pubblico di pronto intervento che non venisse strangolato dalle regole della burocrazia e fosse quindi in grado di agire con immediatezza. E anche il caso dell’esercito che, in questi periodi di ristrettezze di bilancio, vuole essere pagato dai sindaci che richiedono il suo intervento per spalare la neve: la cifra non è del tutto trascurabile, trattandosi di settecento euro al giorno per ogni squadra di dieci spalatori. Lo scollamento nazionale spinge poi il sindaco di Roma a vedere nei servizi sul maltempo nella capitale che compaiono sui giornali del Nord una bieca congiura per togliere a Roma la possibilità di ospitare le Olimpiadi del 2020.
Sotto le nevicate, insomma, è l’Italia che rischia di sfarinarsi. Nei Paesi di montagna di un tempo, neve e freddo portavano con sé impulsi di solidarietà e di condivisione. Invece di condivisione, la situazione attuale porta divisione, con i «forconi» siciliani che minacciano di bloccare le uscite dalle raffinerie dell’isola, nelle quali si «lavora» una quota importante del petrolio italiano per impedire che venga inviato nel resto d’Italia.
Forse proprio di qui, dalla presa di coscienza della realtà di un Paese infreddolito, lacerato, oltre che in bolletta, occorre partire per cercare di rilanciare l’idea stessa di un Paese reso irriconoscibile, ancor più che da una coltre bianca, da una coltre di acrimonia ed egoismo. Senza tale presa di coscienza, qualsiasi politica di rilancio rischia di essere fondata sulla sabbia; o, se si preferisce, su un tappeto di neve scivolosa.
La Stampa 08.02.12