La riforma elettorale costituisce, come è noto, uno straordinario «evergreen» del dibattito politico. Un tema che non tramonta mai e anzi risorge dalle sue ceneri a cadenze regolari: senza portare quasi mai a decisioni utili, tant’è che abbiamo ancora la legge elettorale Calderoli, il cosiddetto “porcellum”, approvata da una maggioranza di centrodestra più di sei anni fa.
Nessuno in questo arco di tempo ha voluto o potuto modificarla: nemmeno il centrosinistra di Prodi che governò fra il 2006 e il 2008 in base proprio al “porcellum” e si guardò dal riformarlo.
E oggi? La scena è cambiata, in apparenza. Il governo tecnico di Monti sta rimodellando il sistema politico per il solo fatto di esistere. E i partiti devono adeguarsi alla nuova realtà, come li ha più volte sollecitati il capo dello Stato. Sulla carta la riforma della legge elettorale dovrebbe arrivare al termine di un processo di rinnovamento complessivo delle istituzioni (bicameralismo, numero dei parlamentari, poteri del premier, eccetera). In pratica non è così: è più facile e conveniente, nonostante tutto, cercare (almeno cercare) un’intesa sul modello elettorale che procedere insieme alle modifiche alla Costituzione.
Del resto sarebbe davvero molto grave se le forze politiche si presentassero agli italiani nel 2013 con la vecchia legge, quella che nega ai cittadini la scelta dei propri rappresentanti e fissa un premio di maggioranza abnorme, al di fuori di qualsiasi soglia.
Ecco allora che da qualche tempo si parla di un’intesa di massima raggiunta in via ufficiosa fra esponenti del Pdl e del Pd. A grandi linee riguarderebbe un modello elettorale a metà strada fra il sistema tedesco e quello spagnolo, così da accontentare i due maggiori partiti, senza indispettire “a priori” i rispettivi alleati. Tutto questo sulla carta, perché poi le intese tecniche vanno calibrate intorno a un tavolo politico. E qui tutto si complica.
Domenica Berlusconi ha rilasciato un’intervista a “Libero”, poi in parte corretta, in cui si è pronunciato in modo esplicito a favore di un accordo diretto fra Pdl e Pd, con l’obiettivo di spazzare via le forze minori, compresa l’Udc di Casini e persino, fatto singolare, la Lega. Tutto questo grazie a una «soglia di sbarramento» abbastanza alta da salvaguardare un bipolarismo che per la verità finirebbe per assomigliare a una forma di bipartitismo. Pdl e Pd, appunto, lasciando agli altri un certo numero di seggi.
Il tema elettorale è fra i più ostici per la pubblica opinione. Ma in questo caso è difficile non vedervi i risvolti politici. Cosa vuole Berlusconi? Favorire il compromesso riformatore o sabotarlo per mantenere in vita il vecchio “porcellum”? La domanda è legittima perché il tono dell’intervista sembra volto a mettere in imbarazzo il Pd e irritare il fronte degli esclusi. Lega e Italia dei Valori sono già sul sentiero di guerra e gli unici a fare buon viso a cattivo gioco, con una certa astuzia, sono Casini e Fini.
A sua volta il Pd, per bocca di Luciano Violante, ha garantito (vedi la “Stampa” di ieri) che il dialogo deve riguardare tutti «perché le riforme si fanno col maggiore numero di forze politiche possibili. Senza rapporti privilegiati e senza escludere nessuno». Quindi il Pd si rende conto del rischio di un confronto a due. Berlusconi invece lo rivendica. La contraddizione per ora è evidente.
Il Sole 24 Ore 07.02.12