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“Gli stereotipi dei tecnici”, di Miguel Gotor

Ancora un inciampo comunicativo, l’ennesimo, da parte del governo sul tema del lavoro. Questa volta è toccato al ministro dell’Interno Anna Maria Cancellieri sentenziare che i giovani italiani pretenderebbero il posto fisso per continuare a stare «accanto a mammà». Sorprende l’uso di stereotipi ormai consunti che sembrano staccati da un album di fotografie ingiallite in cui si racconta un’Italia che non esiste più da almeno trent’anni: quella col posto fisso che il padre trasmetteva al figlio al momento del pensionamento come un’eredità di famiglia e dove, per sentirsi «moderni», bastava prendersela con i «figli mammoni», sempre quelli degli altri, naturalmente, e intanto iscrivere i propri a «informatica» o a «ingegneria» così troveranno di sicuro un buon lavoro… Del resto, già a metà degli anni Ottanta si rideva guardando su Drive in le avventure di uno studente calabrese fuori corso «salito» a Milano per laurearsi alla «Bbbocconi!». È possibile che siamo ancora tutti fermi lì, come tanti fossili ideologici con i nostri tic e battute?

Eppure questo gusto per la caricatura vintage denuncia un distacco dalla realtà del mondo del lavoro di oggi – si direbbe una rimozione tecnocratica – che merita di essere approfondito. Anzitutto rivela una difficoltà a uscire dal proprio orizzonte sociale, che un tempo si sarebbe detto di classe: l’Italia che lavora, soprattutto quella giovanile, non è composta soltanto dai figli dell’alta borghesia urbana delle libere professioni o dell’accademia, per antichissima tradizione nel nostro Paese a vocazione cosmopolita ed esterofila. E non è formata solo da quanti vivono l’ebbrezza della mobilità e il gusto creativo per la flessibilità a Bruxelles, Ginevra o New York, tra studi di avvocati, organizzazioni internazionali e uffici di consulenza finanziaria, con stipendi e «fringe benefits» di qualche migliaio di euro.

Il valore di queste forme di lavoro è fuori discussione, ma non è condivisibile che il punto di vista di una parte minoritaria e privilegiata della società pretenda di trasformarsi in senso comune e il senso comune prima in caricatura e poi in sberleffo. Tutti quanti vorrebbero essere flessibili a quelle condizioni, ma chi governa ha il dovere di alzare la testa dai propri saperi libreschi o dalle eccezionali esperienze professionali che hanno caratterizzato la sua vita: e non soltanto perché un altro mondo è possibile, ma perché esiste per davvero al di fuori di quell’esclusivo recinto e la politica, anche quando è tecnica, ha il dovere civile di tenerlo bene in conto.

In secondo luogo, quest’atteggiamento sembra alimentato da una sorta di «yuppismo» di ritorno che lascia interdetti. Come se fossimo rimasti ibernati dentro gli anni Ottanta, ci risvegliassimo all’improvviso da un brutto sogno, e Berlusconi, con Sacconi e Brunetta, non avessero governato per otto degli ultimi dieci anni, partecipando al fallimento delle politiche neoliberiste su scala mondiale. Sono trent’anni che chi entra nel mondo del lavoro lo fa con contratti a tempo determinato e trascorre il periodo più importante della sua vita, quello della formazione e dell’entusiasmo, passando da un mestiere all’altro. Sono trent’anni che i giovani italiani hanno scoperto il precariato come unica dimensione della loro vita professionale, presente e futura. Altro che posto fisso!

Nel frattempo, i ragazzi del sud hanno ripreso a emigrare, la disoccupazione giovanile è aumentata ovunque e i salari non superano i 1000-1200 euro, se e quando si ha la possibilità di averne uno. La maggioranza dei giovani che non hanno la fortuna di essere protetti dalla famiglia o dalla rendita, vive, in un periodo di crisi come questo, sulla soglia della povertà, a un passo da un baratro che non osa guardare e gli impedisce di progettare il futuro: basta un incidente, un errore, un divorzio con alimenti da pagare e ci si ritrova stritolati dall’angoscia di non farcela più. E non si parla solo di giovani proletari, che pure meritano la massima attenzione, ma anche dei figli della classe media, i primi a dover tollerare la frustrazione di avere prospettive di vita inferiori a quelle dei genitori. E non si può nemmeno ignorare che in intere regioni del Paese la pensione della nonna o l’aiuto dei genitori – quando questo è possibile – costituiscono una forma preziosa di welfare integrativo che supplisce a ben altre mancanze pubbliche e private.

Dopo il pesante intervento sulle pensioni, sulla questione della riforma del lavoro si gioca una partita decisiva per la durata di questo governo che non può tollerare maggioranze variabili o intermittenti. Servono dunque una maggiore sensibilità politica, culturale e civile giacché, quando si affronta un simile nodo, si toccano la speranza dell’uomo di realizzare e trasformare se stesso e la sua dignità più profonda come persona: e allora, sarebbero quanto meno auspicabili una maggiore attenzione comunicativa e meno battute che, in tempi difficili come questi e dopo i sacrifici chiesti ai lavoratori, non fanno ridere nessuno.

La Repubblica 07.02.12