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“La maledizione dei giovani, precario il 47%” , di Luigi Grassia

In Italia essere giovane vuol dire in quasi metà dei casi essere anche precario: risulta dai numeri dell’Istat che nella classe d’età fra i 15 e i 24 anni, e considerando solo chi ha un lavoro, i dipendenti a tempo determinato (cioè con la data di scadenza) sono pari al 46,7% degli occupati. La quota dei precari resta elevata anche se si alza l’asticella dell’età allo scaglione successivo: fra i 25 e i 34 anni, il 18 per cento dei dipendenti risulta assunto con un contratto a tempo determinato. Per veder scendere l’incidenza della precarietà a valori molto più bassi bisogna guardare al mondo del lavoro da 35 anni in su: in questa fascia pienamente adulta di persone solo l’8% è precario, con un’ulteriore distinzione: il valore è dell’8,3% fra i 35 e i 54 anni e scende al 6,3% fra gli over-55.

Le cifre riportare sopra si riferiscono alla media del 2010 e bisogna tener presente che valgono per chi ha la fortuna di avere un lavoro, mentre per gli altri anche la precarietà può essere un sogno impossibile. Infatti dati sulla disoccupazione parlano di un giovane su tre a casa per forza, non riuscendo a trovare un impiego di nessun tipo.

E le cose dal punto di vista della precarietà sono in via di peggioramento: per colpa della crisi che morde, più del 70% dei nuovi ingressi dei ragazzi e delle ragazze è a tempo.

Invece dai dati dell’Istat relativi al terzo trimestre 2011 risulta che Italia fra luglio e settembre c’erano 2,364 milioni di dipendenti a tempo determinato e 385 mila collaboratori. In tutto 2,749 milioni di persone a cui manca il posto fisso, ovvero lavoratori «atipici». Purtroppo questi numeri sulla precarietà non sono esaustivi, rappresentano solo una base di partenza, uno «zoccolo duro»: il totale risulterebbe molto più alto se ai precari formalmente censiti come tali si aggiungesse tutto il vasto sottobosco di rapporti di lavoro ancora più deboli, cioè gli irregolari, e le innumerevoli forme di abuso, a cominciare dalle cosiddette «false partite Iva», presunti liberi professionisti che in realtà sono lavoratori dipendenti senza le tutele di legge e sfruttati.

Per di più il fenomeno non è affatto in regresso, anzi il numero dei precari risulta in forte aumento; secondo l’Istat i dipendenti a termine nel terzo trimestre del 2011 sono cresciuti, su base annua, del 7,6% (+166 mila persone) e l’incidenza del lavoro «a tempo» sul totale degli occupati ha toccato il 10,3%. Inoltre, fra gli assunti con la data di scadenza una forte quota (il 25 per cento) vede la condizione di lavoro ulteriormente peggiorata dall’avere un contratto part-time. E a causa della crisi l’unica forma di part-time in crescita è quella involontaria, ovvero imposta dal datore di lavoro e non chiesta dal lavoratore o dalla lavoratrice per ragioni loro.

Tutto questo sarebbe più sopportabile se la precarietà fosse temporanea e servisse ad agevolare un ingresso nel mercato del lavoro, come semplice prima tappa di un dignitoso posto a tempo indeterminato, da raggiungere dopo un po’; ma finché l’economia non riparte il meccanismo è bloccato, resta solo la pura lotta per la sopravvivenza, senza prospettive.