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“La giornata mondiale contro le infibulazioni: “Cambiare si può, occorre capire non imporre””, di Luca Attanasio

A colloquio con un ginecologo somalo da anni impegnato da anni nella battaglia contro le mutilazioni genitali femminili. Sono 135 milioni le donne mutilate nel mondo, due milioni a rischio ogni anno, 6.000 al mese, secondo le stime di Amnesty International. Una tradizioni antichissima che ora sembra destinata ad essere messa in discussione. Molte le richieste di de-infibulazione. Alla vigilia della Giornata Mondiale contro le Mutilazioni Genitali Femminili e del Convegno che si terrà presso l’Ospedale San Giovanni di Roma “Conoscere per Prevenire” (6 febbraio, Sala Foschi alle 9.15) incontriamo Abdulcadir Omar Hussen, un ginecologo somalo in prima linea da anni in Italia nella battaglia contro questa pratica.
Salima, 20 anni, somala. Si presenta al Centro di Riferimento Regionale per la Prevenzione e la Cura delle Complicanze Legate alle Mutilazioni dei Genitali Femminili 1di Firenze, in un giorno dello scorso gennaio. A 8 anni le è stata praticata una infibulazione. Ha dolori pelvici molto intensi, difficoltà a urinare, bruciori e il ciclo mestruale è un incubo. Vuole che i medici intervengano. Ma la veglia da vicino la nonna, probabilmente la persona che le ha eseguito l’operazione da bambina. Non vuole che si metta in discussione la pratica, ma sa che la nipote rischia la salute. È tutta qui, tra rispetto della tradizione e sofferenze psico-fisiche, tra elemento culturale ed evidenza di una pratica aberrante, che si gioca la questione delle Mutilazioni Genitali Femminili.
“Il problema – spiega il Dott. Abdulcadir Omar Hussen responsabile del centro e studioso del fenomeno – è che in moltissime culture si esclude a priori che una tale pratica possa arrecare il minimo danno. Al contrario, per la maggior parte è un vantaggio, un’istituzione sociale che evita l’esclusione.
Quando si affronta questo problema bisogna sempre tenere in conto da una parte i diritti umani dall’altra la cultura che esalta una pratica e che non la ritiene affatto l’inflizione di una sofferenza”.
Sono 135 milioni le donne mutilate. Sono oltre 135 milioni le donne mutilate nel mondo, 2 milioni a rischio ogni anno, 6.000 ogni mese (le stime – fornite da Amnesty International 2 su base statistica immigratoria, dato che nei paesi d’origine il fenomeno non è sempre misurabile – sono arrotondate per difetto). In alcune zone del mondo, Corno d’Africa su tutte, le percentuali si avvicinano al 100. Le conseguenze immediate possono essere emorragia, shock, ritenzione urinaria, infezioni, lesioni. Ma non sono pochi i casi di morte. Gli esiti tardivi, invece, possono essere malattie infettive, cheloidi, dismenorrea, stenosi, danni psicologici permanenti, cisti. E non c’è da stupirsi se si conoscono gli strumenti utilizzati – lame improvvisate, pezzi di vetro, cocci, lattine, pietre -, i metodi di sutura – fili di seta, spine di acacia, stecche di legno di palma a forma di V – o i “chirurghi” – “el daida (levatrice)” e “tamargheia (mammana)”. In Etiopia l’operazione avviene a 8 giorni, in Arabia a 10 settimane, in Somalia si viene clitoridectomizzate a 3-4 anni o infibulate a 8-10, tra i Masai, dopo il matrimonio.
Una tradizione che ha 6 millenni. L’uso di intervenire sul corpo della donna, specie in quelle parti che attengono alla sfera sessuale, è molto antico quanto diffuso. Le fonti disponibili collocano con una certa precisione le prime operazioni di questo genere tra il 4.000 e il 3.000 avanti Cristo. Erodoto (484-424 a. C) scrive che la “recisione” veniva utilizzata da Fenici, Hittiti, Etiopi, Egiziani e Romani. Più vicini a noi, Pierre Dionis, medico personale di Luigi XIV, utilizza pinze e coltelli per eseguire clitoridectomia, mentre Isaac Ray, uno psichiatra inglese del XIX secolo, dichiara che gli organi riproduttivi delle donne in taluni casi vanno rimossi perché creano tendenza a comportamenti criminali. Per tutto il XIX secolo e fino alla seconda metà del XX, in Europa e Stati Uniti, si pratica diffusamente la cosiddetta clitoridectomia terapeutica per “patologie” quali masturbazione eccessiva, isteria, malinconia, ninfomania. Ma anche per affezioni respiratorie, epilessia, cecità, tumori o emorroidi. La prestigiosa rivista “Lancet” promuoveva senza remore la pratica e in Inghilterra, l’ultimo caso documentato di escissione del clitoride per correggere disturbi emozionali, risale agli anni ’40. Insomma, un filo rosso che unisce la preistoria ai tempi odierni.
Le de-infibulazioni. “Ma le cose, qui in occidente, così come in Africa, stanno cambiando – afferma, ottimista, Abdulcadir – l’opera di sensibilizzazione è sempre più capillare e sale, questa è la nostra analisi, la richiesta delle donne di de-mutilarsi. Nel mio centro, negli ultimi cinque anni, abbiamo praticato 200 de-infibulazioni”.
I tanti modi per dire “mutilazione”. A capire come mai un tale evento che leggiamo come traumatico quanto cruento sia percepito come assolutamente normale dalla gran parte delle donne stesse, o viene addirittura considerato una pratica positiva dalla comunità, tanto da meritare titoli come Tahur (purificazione), Gaad (tagliare per rendere uniforme, o addirittura Tizian (bellezza), ci aiuta l’antropologia. In moltissime aree del mondo, la modificazione degli organi genitali è vista come la più banale delle azioni. La bambina, ad un certo punto, viene “tagliata” o “cucita” perché lo fanno tutte le altre, perché altrimenti sarebbe esclusa da ogni possibilità di matrimonio, perché lo vuole la nonna, la mamma, il papà, e così via. Ma guardare il fenomeno solo con lenti occidentali, non aiuta a comprendere a fondo il problema.
Il dolore in alternativa all’emarginazione. “Basta una frase pronunciata da Sylla Habibatou Diallo, un’attivista e femminista Maliana – dice la Marta Mearini, antropologa esperta, collaboratrice del San Camillo-Forlanini di Roma – a dare un’idea della complessità del fenomeno: “Si può chiedere ad una madre di non fare del male a sua figlia, ma come chiederle di condannarla all’emarginazione sociale?” La pratica è una modificazione necessaria per rendere socializzabile il corpo femminile in molti contesti socio-culturali. Infatti, permette alla donna di identificarsi con la realtà sessuale che le appartiene e uniformarsi a un modello sociale di riferimento. Attraverso questo, le sarà possibile rivestire i ruoli e gli status riconosciuti al suo genere nel contesto di appartenenza, come madre e moglie”.
La mediazione culturale. “Il problema è molto composito – riprende Abdulcadir – e va affrontato culturalmente. Al primo posto vanno certamente i diritti alla salute, alla sessualità, e all’equilibrio psico-sociali della donna. La ferita che portano nel corpo non ha ragione di esistere e quindi va evitata. Ma per mezzo di un’opera eminentemente culturale. Ho la fortuna di essere un ginecologo ormai occidentale – dice Abdulcadir – ma anche di essere somalo. È fondamentale, nel nostro centro, l’apporto culturale che permette di opporci alla pratica ma capendone origini e motivi. Le persone cambiano il loro comportamento quando comprendono quali siano i rischi e l’oltraggio di pratiche dannose ma anche quando capiscono che cambiare una pratica, non significa abiurare alla propria cultura”. La dimostrazione non tarda ad arrivare. La ginecologa che ha visitato Salima e la mediatrice che ha parlato per ore con la nonna, hanno avuto successo. La giovane sarà operata. Per sua scelta.

da repubblica.it 06.02.12