economia, politica italiana

“Perché lo spread conta (ma da solo non basta)”, di Donato Masciandaro

In questi giorni si osserva con generale grande soddisfazione la riduzione dello spread dell’Italia, arrivato a quota 375, duecento punti sotto il picco del novembre scorso. Ma che cosa è oggi lo spread?

Quando un termometro nato per indicare un rischio economico futuro diventa invece un segnale di crisi politica imminente, dobbiamo continuare a utilizzarlo come se niente fosse accaduto, ovvero interrogarci su come migliorarlo?
Un effetto generale e pervasivo della crisi dei debiti sovrani europei avviatasi dal 2010 è il tracimare – anche nel linguaggio comune – del termine spread.

I l significato del sostantivo spread ha subito una rapida evoluzione proprio a partire da quel momento. Lo spread BB10 di cui parliamo è la differenza tra il rendimento di un titolo italiano (BTp) e quello di un titolo tedesco (Bund) su uno stesso orizzonte temporale: dieci anni. Ma lo spread si può calcolare anche per Paesi diversi dall’Italia. In generale perciò la differenza tra i due rendimenti ci dà la misura di un rischio futuro: se lo spread è nullo, vuol dire che la probabilità che tra dieci anni uno stato – per esempio quello italiano – onori il suo debito è identica a quella dello stato tedesco.

Al crescere dello spread attribuiamo allora il significato di una maggiore probabilità futura di fallimento dello stato in questione.
Ma da che cosa dipende lo spread? In situazioni normali, lo spread dipende di solito da quanto un Paese è indebitato, rispetto alle sue capacità di generare reddito; quindi si guarda il rapporto tra il totale del debito di quel Paese ed il suo prodotto interno; chiamiamolo debito ponderato. Ma qui nasce il primo problema: il termometro dello spread nell’Unione Europea non ha funzionato.
Se infatti si guardano gli anni che vanno dal 2000 al 2008 si scopre che gli spread dei vari Paesi appartenenti alla zona Euro non hanno affatto seguito il profilo dei rispettivi debiti ponderati. Gli spread erano molto simili tra di loro – tendenzialmente nulli – nonostante i debiti ponderati fossero molto diversi, passando da livelli del 20% ad oltre i 110% (pensiamo all’Italia e alla Germania, ma non solo). Dunque per i Paesi ad alto debito ponderato lo spread sottostimava il rischio fallimento.

Ad uno stesso debito ponderato corrispondeva un valore più alto o più basso dello spread, a seconda che il Paese fosse fuori o dentro l’area Euro. Conosciamo la ragione: i mercati ritenevano credibile il principio di solidarietà europea, per cui difficoltà di un Paese ad alto debito relativo sarebbero state affrontate anche dagli altri Paesi. Ma rimane il fatto che il termometro ha funzionato in modo anomalo, visto che l’ammontare del debito veniva completamente trascurato per i paesi Euro, mentre qualcosa contava per i Paesi non Euro.

Il termometro spread ha funzionato però anche peggio a partire dal 2010, quando sono iniziati e poi diffusi – vertice dopo vertice – gli scricchiolii del principio di solidarietà europea, poi definitivamente infranto con la dichiarazione di Dauville di ottobre, che ha aperto l’inedita possibilità che i privati detentori dei titoli greci subissero ingenti perdite.

Da quel momento il termometro per l’area Euro è impazzito: l’ammontare del debito è improvvisamente diventato molto rilevante, forse troppo. I rendimenti a dieci anni dei paesi ad alto debito ponderato sono schizzati a livelli non giustificabili, se non dal fatto che tali paesi fossero membri dell’area euro. Nulla di tutto questo è accaduto per i paesi ad alto indebitamento fuori dall’area euro.
Nei casi più eclatanti – Grecia, Portogallo e Irlanda – le salite dei rendimenti si sono rinforzate in sequenza temporale, rinforzando il loro sganciamento dai valori “normali”. Allo stesso modo, sono divenuti ingiustificabilmente bassi i rendimenti a dieci anni dei paesi a basso debito ponderato, sempre dell’area Euro. È stato calcolato che in generale l’aumento degli spread è stato sei volte maggiore di quello spiegabile guardando al debito ponderato. Insomma: il termometro non è più affidabile.

Ma c’è di più: lo spread è diventato nel linguaggio comune sinonimo di indicatore di costo di indebitamento tout court. Per cui ogni aumento dello spread viene interpretato come un aumento dei costi del debito, che per un Paese ad alto debito significa che il momento del default è più vicino. Più lo spread si allarga più il rischio default si avvicina. Quindi il problema non riguarda più un lontano governo, ma l’Esecutivo che è in carica in quel Paese. Lo spread si è trasformato da indicatore di rischio economico futuro a quello di rischio politico presente. Ne sanno qualcosa i governi di Grecia, Spagna ed Italia. Il termometro ha cambiato natura.
Il punto è questo: un termometro mal tarato e dal significato ambiguo può essere molto dannoso. Anche a voler accettare l’idea che spread sia divenuto un termometro del rischio politico, quindi del costo dell’indebitamento allora modifichiamolo da almeno due punti di vista. In primo luogo, se siamo interessati al costo di indebitamento in termini assoluti, smettiamola di guardare solo ai titoli a dieci anni, e consideriamo tutte le scadenze.

A titolo di esempio, ieri i rendimenti a 10 anni sono scesi al 5,63%, ma in realtà è tutta la curva che ha beneficiato della cura Monti: a 5 anni i rendimenti sono al 4,25%, a 2 anni al 3,01%. Il termometro, con più informazioni, è più veritiero. In secondo luogo, se ci interessano anche il costo relativo, perché continuare ad utilizzare come parametro i titoli tedeschi, che hanno destini intrecciati – ancorchè speculari – con gli altri? Prendiamo un Paese ad alta credibilità esterno all’area euro (può essere la Svizzera, o la Svezia, o altri ancora). Si noti che questo non significa scegliersi il parametro più comodo: ieri lo spread rispetto alla Svizzera era 490, rispetto alla Svezia 380. Dunque, perché rassegnarsi ad usare un termometro ambiguo?

da www.ilsole24ore.com