Ormai è come una caccia all’uomo. Casa per casa, ufficio per ufficio, segretaria per segretaria, vitalizio per vitalizio. Non siamo ancora al clima dei mesi terribili di Tangentopoli, quando politici, ministri e amministratori di qualunque livello non potevano nemmeno mostrarsi in pubblico – pena insulti e lanci di monetine – ma non è detto che non ci si arrivi.
E non sarebbe un bene, se è vero (come è vero) quel che ha lamentato ieri Bruno Tabacci, uno che Tangentopoli l’ha vista da vicino: «Siamo passati da Severino Citaristi a Luigi Lusi… La questione morale non è stata affatto risolta. Anzi: negli ultimi venti anni si è andata appesantendo».
Si tratta di un giudizio difficilmente contestabile: e di una situazione – quella attuale – della quale i partiti portano, naturalmente, il massimo della responsabilità. Tutti i partiti, con differenze non significative: a cominciare da quella Lega «di lotta e di governo» che un tempo con pessimo gusto – faceva penzolare cappi nell’aula di Montecitorio ma i cui parlamentari, oggi, ricorrono in massa contro la riforma dei vitalizi. E’ ai partiti, dunque, che va imputato l’attuale stato di cose, compreso il perdurante discredito che li circonda: ma se si vuole davvero cambiare questa insostenibile situazione, è precisamente dai partiti (soprattutto in presenza di un governo che per il momento, saggiamente, si tiene alla larga dalla canea montante) che va pretesa una soluzione.
Naturalmente, il punto è volerla davvero, una soluzione. E non limitarsi considerata la già provata insufficienza – a campagne di denuncia, invettive e cavalcate moralistiche (nelle quali i partiti stessi sono spesso in prima fila…) che possono tutt’al più fungere da lavacro per troppe cattive coscienze, ma certo non cambiare lo stato delle cose. Se nonostante il moltiplicarsi di censori severissimi e di moralizzatori dell’ultima ora nulla è cambiato da Tangentopoli a oggi, è semplicemente perché nulla di concreto è stato fatto: nulla che impedisse – o rendesse più difficile – il ripetersi di episodi di corruzione e di malcostume politico.
Oggi, in tutta evidenza, il bivio è chiaro: si intende far qualcosa o solo dare l’impressione di star facendo qualcosa? Se la maggioranza degli eletti in Parlamento pensasse che sia la seconda la via da battere, sappia che il rischio è elevatissimo, perché non c’è Paese democratico che possa restar tale a lungo con la politica, i partiti e le istituzioni ridotte ad anime morte. Se invece – anche solo per l’evidente impossibilità di difendere posizioni di privilegio non più tollerabili – ci si fosse finalmente convinti ad intervenire, il lavoro da fare è certo molto: ma la strada è tracciata. E sono le stesse forze politiche, del resto, ad elencare da anni (e naturalmente a non fare) le tre, quattro cose da cui partire.
Una legge che dia attuazione all’articolo 49 della Costituzione e disciplini ruolo, funzioni e regole interne dei partiti politici; una legge elettorale che ridia ai cittadini il diritto di scegliere i propri eletti, così da poterli cambiare (oggi nemmeno questo è possibile!) in caso di inefficienza o immoralità; norme che disciplinino le primarie, così da assicurarne la regolarità e da renderne vincolante l’esito; una legge che riduca il numero dei parlamentari (è imbarazzante perfino scriverlo per la millesima volta…) e differenzi compiti e ruoli delle due Camere. E poi regolamenti che ristabiliscano – per gli ex presidenti della Repubblica, gli ex presidente di Camera e Senato, gli ex parlamentari e quelli in carica – chi ha diritto a cosa e perché.
Senza riferimenti certi – senza leggi, insomma – tutto resterà nell’incertezza e nella discrezionalità più assoluta: e il populismo demagogico imperante (dentro e fuori i partiti) non potrà che ingrossare ulteriormente le proprie fila. Ciò a cui si assiste ormai da mesi, infatti, non è un dibattito (magari duro ma civile) su come rifondare politica e partiti, quanto – piuttosto una sorta di regolamento di conti, una guerra senza quartiere che difficilmente potrà avere vincitori.
Accadde lo stesso venti anni fa con Tangentopoli, dopo la quale sul terreno non rimasero che macerie politiche. Su quelle macerie nessuno ricostruì un sistema fatto di regole e leggi che impedissero il ritorno del malcostume e della corruzione: il risultato, oggi, è sotto gli occhi di tutti. Il fatto che l’errore rischi di ripetersi è avvilente. Avvilente e pericoloso: per il Paese – certo – e per gli stessi partiti ormai sul punto di affogare nel loro stesso discredito.
La Stampa 03.02.12